Last Updated on 9 Luglio 2006 by CB
Si apre con una citazione di Milne la raccolta di saggi di Dubravka Ugrešić, scrittrice croata ‘esiliata’ dal 1993 negli Stati Uniti. Per inciso, Milne è l’autore di tre libri dedicati alle avventure di Winnie the Pooh, l’orsetto più popolare d’America, trasformato da Disney in uno dei più grandi business commerciali della storia, al punto che dieci anni fa se ne contavano oltre 20 milioni di copie vendute in tutte le lingue e in tutti i Paesi del mondo. Non poteva che cominciare così un libro dedicato alla difficile posizione dello scrittore occidentale oggi, sempre in bilico tra ispirazione e regole del mercato.Scorrevole, divertente e sagace il libro ci restituisce il pensiero di una donna originaria dell’Europa orientale, cresciuta nella Jugoslavia comunista, che si scontra con l’asservimento dell’editoria non più ad un regime politico ma, e sembra quasi peggio!, al regime del ‘dio’ denaro. Dove regna incontrastato il potere dell’editore di selezionare solo quanto di più gradito al lettore inteso come consumatore di libri e non più come appassionato di letteratura. Travolti da copertine sempre più luccicanti e dalla cultura da ‘ipermercato’, scrittore e lettore sono in realtà sempre più distanti e il loro rapporto è sempre più mediato, tanto da diventare semplici anelli di una ormai lunghissima catena di montaggio di cui non sono più nè l’artefice nè, l’altro, il benefattore.
Alternando il suo pensiero a racconti di esperienze vere, per quanto paradossali, vissute dalla scrittrice nel suo esilio americano, ne viene fuori un quadro critico e ironico dell’economia di mercato della letteratura, che tocca il suo apice nel capitolo dedicato all’inquietante parallelismo tra due culture solo apparentemente molto diverse: il realismo socialista di matrice sovietica e il meraviglioso mondo di Hollywood.
Scrive la Ugrešić che la richiesta di base della letteratura del realismo socialista si fondava su tre capisaldi: unire la verità alla concretezza storica della rappresentazione artistica per formare ideologicamente ed educare i lavoratori nello spirito del socialismo; essere accessibile alle grandi masse; essere realista alla maniera di Tolstoj.
Così tutti i romanzi erano strutturati intorno alla lotta tra personaggi positivi e negativi, supereroi e cattivi. Era il trionfo dell’happy end, che rasserenava i cuori dei lettori e faceva sognare. Esattamente come vuole, oggi, la cultura di mercato, letteraria, cinematografica, televisiva che sia. E’ tutto incentrato sul trionfo del buono sul cattivo. Per avere successo il libro deve essere di esempio e offrire una soluzione salvifica che faccia ben sperare il lettore, rafforzandone l’autostima; da ciò deriva, scrive la Ugrešić, «l’uso smodato della parola ‘come’ nei titoli», il didascalismo di maniera, l’instant book su come fare bene qualsiasi cosa.
Dubravka Ugrešić scrive questi saggi prima della frattura aperta dagli eventi dell’11 settembre 2001 che si sarebbe sovrapposta a quella lasciata ancora aperta dalla fine del mondo comunista. Gli interrogativi che pone però sono tuttora più che mai attuali (a questo si deve forse la pubblicazione del libro anche se tardiva?). Basti pensare al cinema degli ultimi anni che ha proposto uno dopo l’altro le avventure di tutti i supereroi dell’immaginario collettivo (Spiderman, Batman, I fantastici 4, persino Catwoman) e, in letteratura, al grande successo delle saghe fantasy – dal ritorno della trilogia di Tolkien fino ai libri del giovane Christopher Paolini, Eragon e Eldest – e alla richiesta che viene dal pubblico (e dalle case editrici) de ‘il seguito di’… Così, lo scrittore assiste impotente al dilatarsi della distanza che lo separa dal lettore a causa dell’intromissione di fattori esterni: l’editore, l’agente, il promotore l’addetto alla campagna marketing. Figure queste che rappresentano la mercificazione della letteratura e che influiscono sull’ispirazione dello scrittore e sui suoi processi creativi. Ancora una volta la Ugrešić cita i Paesi dell’Est che ben conosce, dove ‘essere scrittore’ identificava una professione ben precisa.
«All’epoca di Stalin, gli scrittori dovevano stare bene attenti a seguire le concordate regole del gioco. (…) Non c’era posto per l’avanguardismo e le smancerie dello sperimentalismo. (…) Era necessario sapersi servire delle tecniche narrative, tenere a freno i propri impulsi creativi e il proprio gusto letterario». Chi non riusciva finiva nei campi di concentramento. Oggi chi non si adatta alle richieste del mercato, scrive, finisce in «un lager individuale di anonimato e povertà». Laddove nei Paesi dell’Est, il ‘terrore dell’ideologia’ temprava professionisti di grosso calibro, oggi lo stesso compito è assolto dal ‘terrore del mercato’. Che porta fama e rispetto. Già, perché è difficile non rispettare, conclude la Ugrešić, chi porta a casa cifre a sei zeri… Quella a cui sono sottoposti i libri prima di arrivare nelle mani dei lettori è insomma una censura a tutti gli effetti dove spesso i contenuti sono pilotati e asserviti alle esigenze del momento, in una parola al concetto di glamour. In nome del quale sono compiuti i crimini (letterari) peggiori, anche perché il glamour è l’antitesi dell’arte, essendo riservato solo a «quelle attività pubbliche che creino l’illusione di essere accessibili a tutti», mentre l’arte è stata per secoli appannaggio di pochi. Il paradosso, frutto del mercato democratico generato dal diritto al famoso ‘quarto d’ora di popolarità’ profetizzato da Warhol, deriva dal fatto che l’arte, nonostante tutti adesso possano praticarla, ha conservato la sua aura di esclusività. Da qui la corsa a definirsi ‘artisti’; scrittori, per esempio. Tutti rivendicano una propria voce nel mondo dell’editoria: politici, calciatori, veline, criminali, senza contare «l’intero esercito di coloro che sono stati offesi, feriti, violentati, picchiati e che s’affrettano a rendere partecipe il mondo intero della loro sofferenza». Tutti possono scrivere di tutto, insomma. Purchè venda. La corsa al best-seller ne è la dimostrazione. E il lettore è spaesato, da target di riferimento diventa egli stesso vittima del mercato che ha contribuito a creare.
Vietato leggere non è però lo sfogo elitario di chi si tira fuori dal mucchio, ma il racconto serio e ironico di chi ha imparato a convivere con la nuova economia di mercato della letteratura, facendone le spese. Già, perché in quanto scrittrice dell’Est alla Ugrešić fu richiesto di impersonare il cliché dell’esiliato, nostalgico, in cerca di riscatto sociale, bramoso di tornare in patria. Un po’ come oggi si richiede all’adolescente di avere problemi con le droghe, con il cibo, con gli amori e alla trentenne di essere in carriera, vestita all’ultima moda, insoddisfatta o alla quarantenne di essere casalinga, meglio se disperata. Nessuno snobismo, ma tanta ironia che diventa comicità in alcuni episodi – Joan Collins in rosa confetto che inaugura una fiera del Libro, la psicoanalista che scrive un libro sulla psiche dei delfini perché i delfini vendono, una madre che fuma l’erba strappata dal figlio dalla tomba di Puskin credendola droga – con cui l’autrice vuole sdrammatizzare la difficile situazione dello scrittore, costretto ad adattare all’ispirazione trame sempre più convincenti.
Un’idea per reagire al meccanismo perverso potrebbe essere proprio quella di scegliere questo libro, con un titolo che è un ossimoro, ed esibirlo sotto l’ombrellone, per poi cominciare a pensare all’incipit della propria autobiografia. Da pubblicare per Natale, incrociando le dita. D’altronde come scrisse Nabokov «nell’impero della banalità, non è il libro che porta il trionfo, ma il pubblico di lettori». (mt)
da Vietato leggere (Ed. Nottetempo)
«Un mio conoscente, uno scrittore russo che era emigrato al tempo della guerra fredda, fu accolto con insolito calore in Europa occidentale. Nelle numerose interviste rimasticava come un chewing-gum la storiella del comunismo che come un vampiro succhia il sangue ai suoi sudditi, finché non gli venne a noia. «Sono emigrato per le salsicce!» disse alla fine.
«Come per le salsicce?!»
«In Russia non ci sono le salsicce»
Il mio conoscente aveva compiuto un gesto pubblico di demitizzazione personale. E in effetti lo lasciarono rapidamente in pace. In seguito ha pubblicato i suoi libri, ma con un successo ingiustamente scarso. I media amano gli eroi. Ma il mio conoscente si è rifiutato di dare loro in pasto l’eroica storia del suo esilio».