According to the Rolling Stones

Last Updated on 26 Febbraio 2004 by CB

Al termine di due lunghi anni dedicati alla celebrazione del loro quarantennale, i Rolling Stones sfornano la loro prima autobiografia ufficiale. Il volume ripercorre il breve tratto di strada che, alla periferia sud-ovest di Londra, separa l’Eel Pie Island – storico club di rhythm and blues tuttora attivo – e lo stadio di Twickenham, tempio del rugby.Poche yards che, nella storia della band inglese, dividono una delle loro prime apparizioni, datata 24 aprile 1963, dall’ultimo concerto londinese del Forty Licks Tour, datato 24 agosto 2003 e contenuto nel cofanetto di DVD Four Flicks, l’altra strenna autocelebrativa dedicata ai fans che così possono godersi, grazie alle magie del dolby surround e del digitale, ben 3 concerti in un solo colpo da circa 70€!

In According to the Rolling Stones l’epopea del gruppo è scandita in 11 capitoli e raccontata in prima persona dai quattro membri superstiti, i fondatori Mick Jagger, Keith Richards e Charlie Watts e l’ultimo acquisto, il chitarrista Ron Wood – nella band da appena 29 anni!

Il viaggio comincia dei sudaticci club londinesi come il Crawdaddy o il Marquee, dove gli Stones portano per la prima volta in Inghilterra il rhythm and blues afro-americano di Don Coway, Solomon Burke, Jimmy Reed e Rufus Thomas, il blues delle origini di Robert Johnson, Slim Harpo e Muddy Waters, e ovviamente il rock’n’roll di Chuck Berry.

«Al Crawdaddy – racconta Richards – Mick e io abbiamo imparato a fare sbagli madornali senza che nessuno se ne accorgesse e mi sono reso conto che Mick sapeva gestire un palco grande come uno scendiletto meglio di chiunque altro al mondo».

Si prosegue seguendo la rapidissima ascesa, grazie alla maestria del primo produttore della band, Andrew Loog Oldham, capace di vendere ai tabloid l’immagine ribelle del gruppo ma anche di costringere – letteralmente chiudendoli a chiave in una stanza di albergo – Mick e Keith a scrivere le loro canzoni.

Di quei tempi il batterista Charlie Watts ricorda: «A quell’epoca un concerto durava al massimo 20 minuti ma noi smettevamo di suonare dopo la prima canzone perché il frastuono era tale che né noi né il pubblico riuscivamo in realtà a sentirci, solo anni dopo, nel 1969, abbiamo ricominciato a suonare dal vivo veramente».

E così via attraverso i lustri tra crisi insospettabilmente precoci – quella con il primo chitarrista Brian Jones che abbandonerà il gruppo nel 69 poco prima di morire ma che in realtà, veniamo a sapere, già dal 1965 aveva rotto con la band – e molteplici resurrezioni.

Come dimostra anche la pubblicazione di questo volume, i Rolling Stones sono ormai una leggenda vivente della musica rock e in quanto tale vendono il proprio celeberrimo marchio di fabbrica. Ma il modo in cui interpretano questo ruolo sul palco anche in queste 300 pagine è assolutamemente singolare e sorprendentemente franco. Ne vien fuori un quadro non privo di gustose dissonanze da cui emergono grandezza e limiti della più «grande rock ‘n’ roll band del mondo».

Se dunque ci si aspetta il batterista taciturno appassionato più al jazz che al jet-set, ci stupisce sentirlo raccontare la sua tarda disavventura nel mondo delle droghe, datata anni ’80. Se ci si immagina il Ron Wood buontempone, quasi mascotte del gruppo, rimaniamo di stucco nel venire a sapere quante canzoni abbia contribuito a scrivere senza che la coppia padrona gliene riconoscesse merito e royalties.

E curiosamente, dal confronto che si dipana lungo il filo della memoria tra i due ‘Gemelli luccicanti’, (Glimmer Twins, così si fanno chiamare Jagger e Richards in quanto patron della società), emerge un Keith Richards più intento e attento del compagno agli atteggiamenti da guru del rock, sempre pronto a ‘sex up’ il romanzo della band e a disegnarle intorno quell’aura ‘maudit’ che soprattutto i fan si aspettano e desiderano.

Dall’altra parte invece vien fuori un Mick Jagger, certo più ragioniere e amministratore, ma anche più scanzonato e dissacrante rispetto alla sua professione e al mito che circonda la band, acido fino alla spietatezza anche rispetto alle aspettative dei fan. Basta andare a leggersi il suo commento a posteriosi sull’album Exile on Main Street, vero e proprio disco cult per generazioni di garage bands che il nostro labbruto frontman, storcendo il naso, confessa di non amare affatto: «Mi piacerebbe rimixarlo…»
(Maurizio Morganti)

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