Last Updated on 13 Maggio 2021 by CB
Adolphe non è un romanzo d’amore, ma una dichiarazione d’odio, scrive Stendhal. Lui è un giovane uomo che vive in una sostanziale indifferenza, rinvigorita da una precoce idea della morte; «non ho mai capito come mai gli uomini riescano a distrarsene così facilmente». Seduce per vanità e per gioco la più matura Ellénore. Lei lo ricambia, e da quel momento lui ne diventa l’inerte prigioniero. Incapace di fuggire come di restare.
Un soggetto che di per sé non sembra così originale, se non fosse per l’efficacia formale, nella quale si staglia con un tono veridico la voce, che risuona modernissima, del tormentato io narrante di Adolphe. Il breve romanzo sa distillare in poche pagine l’ambiguità della passione amorosa, del protagonista descrive tutta la contraddittorietà, l’amor proprio come l’autentico dolore, per quanto scaturito da una credenza d’amare che è, da quasi subito, fittizia.
Una storia intessuta dalla dissimulazione, dunque, e ritmata da un crescente stillicidio psicologico, dove la irresolvibile ambivalenza dei sentimenti del protagonista è resa – con stilemi che a volte sembrano parodiare il genere del romanzo sentimentale – dal linguaggio della strategia amorosa, tanto efficace infine da inegenerare un sentimento nel protagonista – «finiamo col risentire i sentimenti che fingiamo».
Sostiene Lucia Omacini nella articolata prefazione all’opera, che «Adolphe può essere letto indifferentemente come un romanzo d’amore e/o di odio e che, proprio per questo, non è in grado di fornire alcuna risposta rassicurante al lettore, né di allora né di oggi». Spinge verso l’epilogo tragico anche l’opposta evoluzione dei due: lui che all’inizio disprezza le convenzioni sociali, alla fine, per quanto la scelta lo renda infelice, proprio in loro nome trova la forza di spezzare il legame con Ellénore. Lei che all’inizio è convenzionale e opportunista, quando si innamora di Adolphe ritrova se stessa in un percorso liberatorio.
Adolphe è la rappresentazione di un’impossibilità di fissare nel tempo l’amore-passione, che di per sé è intermittente. E lui se ne rende conto dal momento in cui il gioco seduttivo diventa amore corrisposto, diventa legame. «L’amore non è che un punto luminoso e tuttavia pare impadronirsi del tempo. Pochi giorni fa non esisteva, non esisterà più tra poco; ma finché esiste spande la sua luce sull’epoca che l’ha preceduto come su quella che lo seguirà».

Ecco perché, secondo Giovanni Macchia, Adolphe rappresenta la caduta del vero eroe romantico – per quanto a volte si atteggi a pose da personaggio di Caspar David Friederich, con le sue lunghe e solitarie passeggiate: perché il protagonista sa riconoscere l’intermittenza del sentimento amoroso, e perché il suo io è ormai frammentato, ‘moderno’.
Adolphe è diviso, contraddittorio, sincero e bugiardo insieme. E’ l’eroe che si è fatto uomo, e in quanto tale, nonostante l’apparente cinismo dei suoi comportamenti, l’apparente vigliaccheria della sua irresolutezza, non riusciamo a non vedere in lui un triste emblema, fuori dallo spazio e dal tempo, astratto e tratteggiato nel suo enigmatico dolore, della condizione umana. Abitata, alla fine, da una sorda disperazione. «Non era rimpianto dell’amore; era un sentimento più cupo e più triste; l’amore s’identifica talmente con l’oggetto amato che anche nella disperazione trova qualche incanto. Lotta contro la realtà, contro il destino; l’ardore del desiderio lo inganna sulle sue forze, lo esalta in mezzo al dolore. Il mio era un dolore opaco e solitario; non speravo di morire con Ellénore; sarei vissuto senza di lei nel deserto del mondo…»
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«Lungo tutto il romanzo di Adolphe, i personaggi non fanno altro che proferire parole, scrivere lettere o rinchiudersi in silenzi ambigui. Tutte le qualità, tutti gli atteggiamenti si traducono in una determinata maniera di utilizzare il linguaggio. La solitudine è un comportamento verbale; il desiderio d’indipendenza ne rappresenta un secondo, l’amore, un terzo. La degradazione dell’amore di Adolphe per Ellénore è la conseguenza di una serie di atteggiamenti linguistici (…). Tutto questo giungerà fino alla morte; l’ultimo atto che cercherà di compiere Ellénore sarà di parlare: «… volle parlare, non c’era più voce. Quasi rassegnata lasciò ricadere il capo sul braccio che lo sosteneva; il respiro si fece più lento. Alcuni momenti dopo non era più». La morte non è null’altro che impossibilità di parlare.
Questa relazione del linguaggio con la morte non è gratuita. La parola è violenta, «crudele». Ellénore descrive le parole talvolta come strumenti affilati che straziano il corpo («ma quella voce che ho tanto amato, quella voce che mi risuona in fondo al cuore, non ci penetri più per straziarlo») talvolta coma animali notturni che la rincorrono e la divorano fino alla morte. (…) E, infatti, sono proprio le parole che provocano l’atto più grave del libro: la morte di Ellénore. Nulla è più violento del linguaggio».
da La Parole selon Constant, Tzvetan Todorov, in Poetique de la prose, Paris 1971, pp.100-101