Last Updated on 2 Giugno 2013 by CB
Sarebbe chiedere troppo affermare che le sagome che si vedono in molte fotografie di Kertész sembrano sempre dirette incontro alla morte o attenderla con impazienza, ma sarebbe abbastanza ragionevole sostenere che sono sempre in cerca di una panchina. E la panchina rappresenta una sorte di morte. Una panchina sta… in panchina. Sta a bordo campo, condannata al ruolo di spettatore, marginale. L’uomo sulla panchina è proprio un surrogato della situazione di Kertész: osserva la vita ma non vi partecipa più. Almeno – come la gente fotografata da Brassaï e Weegee – ha ancora una panchina. Il 20 settembre del 1962 a New York, dopo anni e anni di mortificazioni e affronti, Kertész realizzò uno scatto che riassumeva perfettamente la propria situazione, o la sua percezione della propria situazione. (…)
E adesso la panchina non è solo vuota, ma anche rotta. Etimologicamente avrebbe senso se l’uomo che dà le spalle alla macchina fotografica avesse dichiarato da poco fallimento ma, allo stesso tempo, potrebbe essere solo un passante che guarda interrogativo la panchina. Per dirla sommariamente, se Kertész voleva che la panchina rotta riflettesse la rovina dell’osservatore, egli vede anche – e vede se stesso in quel modo – qualcuno che sta a guardare, curioso, comprensivo ma distaccato. E’ questa ambiguità ripetuta e condensata che riesce a salvare l’immagine dal sentimentalismo che la minaccia.
(tratto da Geoff Dyer, L’infinito istante, pgg. 124-125)
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