Last Updated on 28 Agosto 2018 by CB
Che la fotografia fin dal suo nascere abbia contribuito in modo determinante alla costruzione delle fashion mass icons, in sinergia con la moda e il dandismo, è cosa notissima. Il saggio di Federica Muzzarelli isola di questo fenomeno sette personalità , sette miti moderni, e li racconta intrecciando le loro foto e la loro storia, a dimostrare come la gestione delle loro stesse ‘maschere’ abbia suscitato una suggestione estetica potente sull’immaginario comune.
Un esempio di questa costruzione iconica è dato da Cléo de Mérode, la nobile ballerina francese che verso la fine dell’Ottocento “sperimentò perprima cosa vuol dire essere lo stereotipo visivo popolare di massa imprigionato in un cliché da riprodurre come merce”. “Un fenomeno generato dalla diffusione della fotografia”, “dell’imposizione visiva nella moda (atteggiamento, stile, dettaglio vestimentario), strumento privilegiato del processo di massificazione”, scrive Muzzarelli. “La diffusione di massa è assicurata dai grandi moltiplicatori del mondo moderno. La star-merce non si usura né deperisce una volta consumata: la moltiplicazione delle sue immagini, lungi dall’alterarla, né aumenta il valore e la rende più desiderabile”.
In Greta Garbo, Marlene Dietrich, Marilyn Monroe, Grace Kelly, è il dettaglio fisico o di stile – proprio come prescrive il dettato dandy – il segno di riconoscimento dell’icona. “La storia del divismo conosce bene il meccanismo di individuazione e iterazione di un particolare fisico o vestimentario così da diventare feticcio visivo e identitario di una star: è stato così per le spalline di Gloria Swanson, per il look androgino di Marlene Dietrich, per il basco e i capelli da paggio di Greta Garbo…”, scrive l’autrice. Tra le icone descritte ci sono Baudelaire – dandy vestito di nero nelle fotografie dell’amico Nadar; Nijinsky dal fascino erotico ed esotico; Nancy Cunard, fotografata da Man Ray con bracciali feticcio; e poi l’eccentrico snob D’Annunzio, un brand dall’enorme potere mediatico. Ma non un dandy, perché non voleva ‘non farsi notare’, ma era piuttisto conformista nel vestire.

E poi c’è la Schwarzenbach, interessante esempio di stile androgino e del modernismo visivo. La scrittrice e fotografa svizzera errante, tormentata, si fa ritrarre spesso mentre si trova in viaggio, e nel ritratto fotografico riconquista uno spazio e ricostituisce un’identità.
La sua immagine trasgressiva e ambigua si impone all’attenzione di tutti. “Si dice che all’uscita del suo primo romanzo, Freunde um Bernhard, la foto di Annemarie che l’editore Amalthea aveva scelto per la copertina fosse di un fascino tale che qualcuno ruppe la vetrina della libreria, in cui il volume era esposto, per impossessarsene”.
“Vivo solo quando scrivo”, annota la Schwarzenbach. Ma anche la fotografia è molto importante per lei, nella duplice versione di fotografa e fotografata, che le permette di “mettere in scena il suo essere una new woman e insieme un’indiscutibile icona lesbo-chic”. La sua ricerca dell’altrove nelle fotografie si espirme come “die dunke Seite, il lato oscuro del fascino di Annemarie, quel velo di tristezza e di enigma che affascinava il mondo (nella foto non sorride quasi mai) e che fece dire a Roger Martin du Gard che gli era apparsa come un angelo inconsolabile. Non a caso seduce Klaus e Erika Mann – con il primo condivide le tendenze suicide e le droghe, alla seconda è legata da una profonda dipendenza psicologica – e lo stesso Thomas Mann ne fu sedotto.
Una instabilità esistenziale che si traduce nella fuga dalla “odiosa neutralità svizzera (sulla quale scriverà lucidi articoli) per percorrere le terre e i continenti in cerca di serenità e spiegazioni.
Viaggerà attraverso l’Asia, l’America e l’Africa, ogni volta con il miraggio di un impegno professionale giornalistico riconosciuto in Europa, e ogni volta anche per sfuggire inutilmente i fantasmi delle droghe e della dipendenza. Un errare appassionato che i suoi ritratti fotografici raccontano fino alla fine…
Insomma, come dice Marianne Breslauer, autrice del famoso ritratto sopra, scattato a Berlino nel 1932: “Non un essere vivente, ma un’opera d’arte”.