Last Updated on 4 Maggio 2004 by CB
Ad Arundhati Roy era affidato a Mantova, nel settembre scorso, il compito di chiudere il Festivaletteratura. Piazza Castello gremita, il pubblico in attesa quasi febbrile, molte bandiere della pace a tappezzare i contorni della piazza. E chi si attendeva (pochi) di sentir parlare del suo lavoro di scrittrice o della sua letteratura come terreno astratto, separato dal resto, è rimasto deluso. Perché dopo Il dio delle piccole cose, un titolo capace da solo di raccontare un mondo, Arundhati Roy non si è seduta a fare la star, ma si è sentita forte per impegnarsi più a fondo sui temi che ha da sempre a cuore: le ricchezze e le povertà della sua India, l’umanità da scoprire e da raccogliere in migliaia di rivoli da raccontare e da intessere, le disparità insopportabili.
Nei libri successivi a Il dio delle piccole cose la sua scrittura ha cambiato forma, è diventata materia di informazione, documentazione e impegno politico diretto. Gli eventi successivi all’11 settembre non potevano lasciarla ferma in uno studiolo a raccontare storie ispirate al reale ma vestite di fantasia e creatività.
Arundhati Roy manifesta nel suo portamento, nel suo sguardo e nel modo di presentarsi una grande forza interiore e un aspetto che sembra oscillare tra la sfrontatezza e una timidezza ben portata. E’ piccola, dimostra qualche anno di meno dei 42 che ha. Aver recitato una piccola parte in un film, e aver sostenuto decine di interviste televisive, le ha lasciato addosso un’abitudine alle telecamere e il necessario sospetto per il prodotto che ne può uscire.
L’intervista di Luciano Minerva.
«Per capire la storia – disse Chacko – dobbiamo entrare e ascoltare quel che dicono. E leggere i libri e osservare i quadri sulle pareti. E annusare gli odori.» E’ con questo spirito che da studentessa venne a Firenze per otto mesi a scuola di restauro?
Quella non fu un’esperienza molto profonda perché in Italia arrivai come una giovane incerta su quello che volevo fare. Avevo una borsa di studio per un corso sul restauro dei monumenti, ma passai la maggior parte del tempo a bere nei bar più che in classe. L’architettura e il restauro in fondo non erano ciò che volevo fare, ma studiare architettura in India mi aiutò davvero a diventare una persona dotata di coscienza politica: mi aiutò a capire come funziona una città, cosa fa la gente che ci vive, come si crea la distinzione tra cittadini e non cittadini, come gli avvocati cercano di escludere la gente e sapevo già che non avrei mai praticato come un architetto che costruisce per le persone che hanno già abbastanza. Così sono venuta qui con l’atteggiamento di chi è pronto a mettersi in discussione, ma senza pretendere di studiare sodo.
«Ammu non voleva sapere che cosa il futuro aveva in serbo per lei ogni giorno, né sapere dove sarebbe stata tra un mese o tra un anno.» Quanta gente non vuole sapere?
Io vengo da un Paese dove tutti vanno dagli indovini, in ogni momento. Ognuno chiede che gli si legga la mano, i politici non fanno niente se prima non vanno da qualcuno che gli fornisce il quadro astrologico, che gli dice che le stelle e il sole sono al punto giusto e così via . Mi chiedo sempre perché non si rendano conto che è una cosa terribile, ma credo che la maggior parte della gente nella propria vita prenda le decisioni guidata dalla paura; quasi ogni decisione sulle cose che devi fare nella tua vita, come l’istituzione del matrimonio, è basata sulla paura e sulla scelta della sicurezza, così probabilmente molti si assicurano contro ciò che non sanno che accadrà.
«Il dolore di Mammatchi l’addolorava e basta, quello di lui la devastava.» C’è un rapporto tra il dolore proprio e il dolore altrui. Lei ora, con la sua azione politica e con la scrittura di saggi e di articoli molto critici, si è presa carico del dolore degli altri?
Non credo che sia un’analogia corretta, perché quando ad esempio nel mio caso parlo della diga a Narmada Valley, la gente mi chiede perché sono là, dato che non è la mia terra, non è la mia casa che va sott’acqua. Ma come un agricoltore ha la sua terra, lo scrittore ha un suo punto di vista, una visione del mondo, ed è questa visione che viene sommersa, così questo è il mio dolore, quello che dico non lo dico a nome di qualcun altro. Quando le bombe cadono sull’Iraq cadono anche su di noi, cadono anche sulla nostra dignità, sulla nostra visione, su come pensiamo che dovrebbe essere il mondo, e sarebbe sbagliato vederci come dei missionari che cercano di parlano a nome delle altre persone. Non è una visione personale ed egoistica come un’altra.
«Crescendo Ammu imparò a convivere con quella crudeltà fredda e calcolata. Si svilupparono in lei una forte sensibilità alle ingiustizie e quella vena ribelle e testarda come un mulo che si forma quando Uno Piccolo è tiranneggiato da Uno Grosso. Non faceva niente per evitare liti e confronti. Anzi, si sarebbe potuto pensare che li cercasse, che ci godesse persino.» Questa in qualche modo è una descrizione che si adatta anche a lei?
Non ho mai pensato una cosa del genere …, sì, forse somiglia un po’ a me, ma posso pensare che quando si è coinvolti in polemiche, quando si prende una posizione in una battaglia, ovviamente questo accade. Ma io uso dire che come i politici mantengono la calma nell’esporre i problemi, così mi sembra paradossale mantenere nel bombardare l’Iraq la stessa calma che si usa per parlare. Loro non si mettono dalla tua parte, perché generalmente quando si mantiene la calma si sta dalla parte dei potenti. Così come definirebbe l’inizio di una polemica? Dipende da che parte stai: se stai dalla parte dei vincitori, non ci sono problemi, solo se stai dall’altra parte sei considerato polemico. Io credo che occorra dichiarare la propria opinione e difendere le proprie posizioni.
Tutto Il dio delle piccole cose parla delle leggi su che cosa si può amare e cosa no e come violare queste leggi. E’ in relazione a queste leggi che lei ha seguito l’istinto di lasciare la letteratura per dedicarsi alla lettura dei rapporti di bonifica e quindi all’impegno sociale?
Non andrei troppo lontano dicendo che ho abbandonato la letteratura in modo permanente. Naturalmente potremmo discutere a lungo su come definire la letteratura. E’ solo nella testa degli editori e sugli scaffali delle librerie che esiste la divisione tra narrativa e non-narrativa. Per me è solo un modo di vedere il mondo. Ma penso anche che la battaglia si svolga anche sul controllo dei confini di ciò che ami, e se sei incapace di amare, se sei incapace di creare e custodire la bellezza, sei incapace di generare felicità e speranza, allora per cosa combatti? Per niente. Così accadono due cose: quando accarezzi davvero le cose che ami e quando tenti di proteggerle. E spero di non dover mai scegliere in modo permanente tra l’una e l’altra. In momenti diversi si devono poter fare anche cose diverse. Purtroppo non sappiamo chi decide tutto ciò. Nella tua vita accadono delle cose e a un certo punto è necessario sollevare lo sguardo dalla pagina e utilizzare le tue qualità di narratore per raccontare altre storie. Ci sono altri momenti in cui puoi ritirarti e lavorare su qualcosa di diverso.
Una frase chiave del Dio delle piccole cose è «Se la toccava non poteva parlare, se l’amava non poteva lasciarla, se parlava non poteva sentire, se combatteva non poteva vincere». Possiamo anche dire, a proposito di lei che «se non scriveva romanzi non poteva lottare e se lottava non poteva raccontare le storie d’amore?»
No, non credo. Come le ho già detto credo che entrambe le cose siano un atto d’amore e che siano necessarie in momenti diversi. Ma non posso dirlo finché non deciderò di scrivere un altro libro. Comunque non credo che ci siano grandi differenze nelle cose che faccio. Nel mondo molti mi conoscono solo dopo il Dio delle piccole cose. Ma se voi conosceste anche i miei libri precedenti vi rendereste conto che il Dio delle piccole cose è un libro fortemente politico, così come lo studio dell’architettura mi ha dato una formazione politica. Quando si considerano le persone dal punto di vista della loro carriera, dal punto di vista professionale, è come se si procedesse per compartimenti stagni. Mentre se lei mi avesse conosciuto quando avevo sedici anni o perfino tre anni, avrebbe visto che non c’è stato un grande cambiamento. Sono sempre stata così da quando ho iniziato a pensare, con un pensiero in evoluzione.
«Il linguaggio – scrive ne La fine delle illusioni – è la pelle dei miei pensieri». Può essere che la pelle dei suoi pensieri sia più morbida, dolce, tenera nel momento in cui parla di storie d’amore e più ispessita, dura, nervosa quando parla di temi politici e delle sue lotte?
Si, è vero che ci sono momenti in cui sento la necessità di non essere ambigui, di essere chiari, drastici e duri soprattutto quando c’è una guerra e non mi riferisco solo alla guerra in Iraq, ma alla guerra a Narmada Valley o alla guerra in cui le persone vengono stritolate. Perché se sei ambiguo in guerra, stai ancora una volta dalla parte dei potenti e della proprietà. E’ una cosa che dico spesso: una delle ragioni per cui oggi in particolare si trovano sempre più artisti e scrittori e cantanti che non vogliono prendere una posizione, è perché temono la volgarità, perché è molto più delicato essere ambigui, è molto più affascinante essere teneri. Ma a volte è importante capire che questo atteggiamento può ferire, può essere una vigliaccheria o un errore. Ancora una volta la lotta consiste nel saper salvaguardare ciò che è insicuro, tenero, bello e nel non aver paura temere di prendere posizione quando è necessario.
Qui siamo in un posto dove l’acqua dà sensazioni di calma, di tranquillità, di pace. Ma in India e non solo in India l’acqua non è più questo.
In India probabilmente l’acqua oggi è la materia che … evapora di più, fatta eccezione per il fascismo hindu. Anche adesso, mentre parliamo, migliaia di persone vengono mandate via dalle loro case per costruire una diga. Ho scritto su come variano la cifra di coloro che sono senza casa a causa della costruzione delle dighe varia tra 35 e 53 milioni di persone. Oggi, forse la priorità massima del governo indiano è privatizzare l’acqua. Questo porterà ad una situazione talmente disperata che non possiamo neppure immaginarla. Quindi lì l’acqua è fuoco.
Lei sta dedicando molto del suo tempo alla lotta sul problema della privatizzazione dell’acqua e sulla questione delle bombe nucleari. Che cosa pensa che sia possibile fare a livello di massa e cosa vede di positivo nelle lotte dei noglobal.
E’ una questione davvero importante e fondamentale su cui riflettere davvero in profondo, perché ciò che è avvenuto negli ultimi tre o quattro anni riguarda la lotta contro la globalizzazione e contro una potenza unipolare. La resistenza in paesi come l’Iraq e l’Afghanistan è diventata una realtà. In altri luoghi però la resistenza sta diventando simbolica, sono solo le marce da weekend, quando non si deve prendere un permesso in ufficio e lo Stato ha imparato a gestire queste situazioni. Anche se si parla di resistenza non violenta, occorre che ci sia un’evoluzione e non una regressione. In India, durante la lotta per l’indipendenza, Gandhi coinvolse migliaia persone nella marcia del sale. Quello non era teatro, era un colpo al cuore dell’economia colonialista. Non era una dimostrazione da weekend. Oggi dobbiamo capire che cosa funziona e cosa no, perché troppo spesso veniamo trascinati dall’aspetto teatrale della resistenza, dalla sua natura simbolica, da ciò che ne scrivono i giornali. Non importa se appare sui giornali o no, ma conta se colpisce. Si tratta di questioni molto serie su cui discutere, perché per ora sono state tracciate le linee di battaglia e sappiamo chi sta dalle due parti. Questo è un grande traguardo e non dobbiamo ignorarlo perché anche solo 4 o 5 anni fa se alcuni, me inclusa, avessero scritto della privatizzazione e della globalizzazione, molti sarebbero rimasti choccati. Ora è tutto diverso, perché la questione è chiara.
Ha parlato di Gandhi. Cosa c’è di ancora forte della sua lezione?
Non mi definirei una … discepola completamente acritica di Gandhi o qualcosa del genere, ma credo che, tra tutti i politici di sempre, Gandhi sia stato un uomo particolarmente brillante. Le sue lezioni sono estremamente pertinenti oggi, perché l’intera antitesi al consumismo è estremamente importante. Se si parla di sviluppo sostenibile, Gandhi ne parlava già molto prima di chiunque altro. E secondo me oggi il problema fondamentale è che abbiamo una società capitalistica guidata dal bisogno di consumare, ma ovviamente tutto ciò che consumiamo arriva dai fiumi, dalle foreste e dalla terra e questa macchina deve essere fermata da noi. Dobbiamo capire che la soluzione ai problemi del mondo non potrà mai essere solo economica: un mondo guidato dagli economisti è ridicolo come un mondo guidato dai maratoneti, o dagli idraulici o dai poeti. E’ necessaria una pluralità di visioni, non può essercene solo una, non può essere solo questa. E’ un programma assurdo.
Qual è secondo lei la coscienza che il primo mondo sta prendendo sui danni che ha creato questa macchina e qual è la coscienza del terzo mondo?
Non ho una risposta esauriente adesso perché se lo facessi … siamo in un posto fortunato come questo! Negli ultimi anni è diventato chiarissimo che nella loro diversità le lotte nel mondo sono importanti, ma devono essere collegate in qualche modo. Come avverrà questo collegamento non so, perché se andiamo avanti così, si arriverà a una disparità tanto ingiusta tra la gente. E quella povertà e quella disperazione non stanno per condurre a un’insurrezione politica, stanno per trasformarsi in uno stato di confusione, di agitazione che è già cominciato: terrorismo, delitti, i fondamentalismi, tutte queste cose. Così non so se saremo abbastanza efficienti nel mobilitare le energie politiche in modo positivo o se scivoleremo in una terribile situazione negativa, in cui si addensa l’oscurità. Credo che quanti di noi stanno cercando di gridare, di farsi sentire, debbano trovare il modo di essere più efficaci: devono riuscire a imbrigliare questa paura e ad indirizzarla in un modo davvero rivoluzionario, radicale. Altrimenti si trasforma in una pura forma di reazione.
Lei si chiede se questo sarà il secolo delle piccole cose. Qual è la sua risposta a questo?
Non lo so. Io lo spero, spero che non sostituiamo una mostruosa ideologia globale con un’altra mostruosa ideologia globale. Ma questi sono problemi rarefatti, pensieri rarefatti. E quando si è alle prese con le cose reali, è difficile portare le cose reali a quel livello, perché la lotta politica è lotta di espedienti. Non voglio nemmeno parlarne.
(si ringrazia per la traduzione Letizia Tesorini).