Last Updated on 23 Giugno 2004 by CB
Non sempre gli scrittori sono come te li aspetti, come li hai immaginati leggendoli, come li hai visti in fotografia. Così è, per me, nel caso della scrittrice algerina Assia Djebar. Si presenta con un viso aperto e meno misterioso di quello che appare nelle fotografie, un portamento da cui riconosci chi ha fatto molto sport, una disponibilità al sorriso e all’allegria ben lontana dalla sofferenza dei suoi personaggi e dei suoi scritti. L’abbiamo incontrata a Pordenone, dove per quindici giorni nel marzo scorso è stata al centro di Dedica, un’iniziativa di Thesis e dell’Associazione provinciale per la prosa di Pordenone.
«E’ la seconda volta che sono qui, ma solo ora mi rendo conto di dove sono. Solo adesso capisco di essere a pochi chilometri dal paese di Pasolini e ne sono emozionata. Appena ho saputo della sua morte, ho capito che dovevo fare qualcosa per raccontare come raccontava lui, con lo stesso amore per il dialetto, con la macchina da presa: dovevo descrivere il mio Paese, le donne della mia terra, con l’occhio di chi le conosce da dentro, senza nessuna concessione all’esotismo.» E’ ciò che avrebbe fatto con il film La Nouba des femmes du Mont Chenoua, premiato come miglior documentario al Festival di Venezia del 1979. Ad Assia piace raccontarsi da subito, prima ancora dell’intervista. Tutta al presente, con la sua meraviglia per la scoperta delle sculture di legno del museo di Pordenone, con gli impegni che la assediano, gli articoli da scrivere in albergo per qualcuno che li aspetta da Parigi, il tempo davvero scarso a disposizione prima di partire per New York. E chiede tra il divertito e il sospettoso se non sia anche tu uno degli innumerevoli giornalisti che le faranno quelle domande politiche a cui potrebbe rispondere chiunque, che non si sa perché si facciano agli scrittori e che sono destinate a finire nella marmellata dell’informazione. «No, partiremo dai suoi libri, da quello che ha scritto». «Grazie, allora possiamo cominciare».
L’intervista di Luciano Minerva
In Queste voci che mi assediano ha raccolto una serie di saggi che ripercorrono la sua storia di scrittrice in lingua francese e che contengono una sorta di autoanalisi attraverso la sua scrittura. Pensa che sia arrivata per lei l’ora di fare i resoconti e si sente in grado di sopportare lo specchio degli altri che la leggono, come non poteva fare molti anni fa?
Per me è stato un lungo cammino. Ho iniziato a scrivere nel 1957. Queste voci che mi assediano l’ho scritto nel ‘99, quindi arriva dopo oltre quarant’anni di scrittura. Ora vorrei parlare del libro che sto scrivendo, ma è meglio non farlo finché non uscirà. Nella mia vita ci sono due periodi. Il primo inizia dopo il mio quarto romanzo, L’amore, la guerra, pubblicato nel ’67, dopo l’indipendenza dell’Algeria, quando mi trovavo a Parigi. È un libro che riassume la mia esperienza durante la guerra d’indipendenza, almeno durante gli anni trascorsi a Tunisi. Lì si incontrava la gente che veniva dall’Algeria per darsi alla macchia, o per andare all’estero o per tornare nella clandestinità, e poi tunisini, gente di ogni tipo, uomini e donne. Nel libro ci sono molti personaggi, e proprio a metà del libro, che tratta di guerra, ho dedicato cinquanta pagine alla felicità di una coppia. E senza rendermene conto in questa parte la mia scrittura è diventata autobiografica. Quando il libro è uscito nessuno se n’è reso conto, ma io ho capito che la scrittura mi metteva in pericolo. Ero giovane, non avevo ancora 30 anni, mia figlia mi sembrava molto più importante della mia scrittura. Allora scrivere per parlare di sé equivaleva ad esporsi. Così ho continuato a scrivere, ma non ho voluto più pubblicare nulla per oltre dieci anni. Poi sono tornata alla scrittura grazie alla mia esperienza cinematografica.
Quando sono tornata nel mio Paese per almeno tre anni, ho cominciato a girare La Nouba de femmes du Mont Chenoua. Non volevo fare un film tanto per farlo. Volevo guardare il mio Paese e, più in particolare, le donne della mia infanzia, quelle della famiglia di mia madre, la vita di montagna, del paese dove andavo da bambina, piuttosto che quella di città. Così ho chiesto a molti abitanti di quei villaggi come avevano vissuto la guerra. E a partire da questo, non ho realizzato un vero e proprio documentario, perché c’era anche un personaggio che mi rappresentava. Giravo delle immagini, ascoltavo il modo di parlare tradizionale delle donne, il dialetto, a volte la lingua berbera, usata per esprimere la sofferenza, e credo di aver passato almeno un anno in sala montaggio, per curare bene la musica e suono. Lì ho capito che forse avevo bisogno di una riflessione sulla lingua francese, per capire se dovevo scrivere di me o del mio Paese. Ma l’esperienza cinematografica mi ha fatto comprendere che, al di là di Algeri e di qualche altra piccola città, lo sguardo sulle donne e lo sguardo delle donne non era mai stato liberato.
Così in Donne di Algeri nei loro appartamenti mi sono immedesimata nell’esperienza dei pittori, che sono i soli nel diciannovesimo secolo a guardare la colonia senza nessun esotismo o ricerca di folklore, sono gli unici a guardare con gli occhi. Attraverso i pittori, i soggetti che scelgono, le loro inquadrature, c’è un nuovo punto di vista, per esempio c’è il pittore che guarda le donne prigioniere, quel quadro di Delacroix… ecco quello è uno sguardo rubato, preso al volo. Ho capito che dovevo scrivere con lo scopo di liberare lo sguardo sulla nostra società, perché non si scrive per esporre agli altri la propria società, ma per guardare a se stessi e al proprio mondo con il proprio sguardo. Ma qual è la lingua giusta per non deformare la realtà? Questo è davvero un problema di sguardi e di prospettive. E d’altra parte, come utilizzare la lingua considerando che la mia lingua, fin dall’inizio, non è quella davvero mia, ma è quella degli altri? Ci sono due difficoltà, una sul piano visivo e l’altra perché uso una lingua che non è la mia lingua madre. Così sono arrivata alla formula usata in Donne d’Algeri, dove mi sembra che le donne del mio Paese e di tutto il Maghreb, parlo di vent’anni fa, comincino a mettersi a nudo, chi scrivendo, chi dipingendo, chi facendo il medico. C’è una doppia libertà da conquistare, quella della parola e quella del corpo. Ma in realtà questo si può fare soltanto dialogando tra donne. La mia scrittura diventa una specie di interrogazione per ristabilire questo dialogo, per vedere qual è il punto in cui si può cercare di liberare se stesse e liberare le altre, ascoltare le altre e nello stesso tempo tornare a se stesse. Quindi penso che abbia valore il dialogo, non quello letterario, ma il dialogo vero e proprio di quando si è in due. Per riassumere potrei dire che la scrittura autobiografica non può esistere nei Paesi musulmani dove la donna non gode ancora dell’appoggio necessario per essere naturalmente se stessa; secondo me la scrittura autobiografica non può essere egotista, non può essere un io-me. Ma al tempo stesso bisogna anche ascoltare chi è come noi, perché quando una donna parla per se stessa parla anche per me, e quando io parlo di me lei cerca di capirmi. Per questo bisogna andare in profondità, non si può restare in superficie se si vuole davvero che questa solidarietà tra donne che io rivendico possa funzionare.
Lei si è fatta carico di esprimere molte voci, le voci sepolte, le voci di chi non ha parlato, delle donne che sono rimaste mute nella storia. Quanto le è pesato sul suo corpo, sulla sua voce, sulla sua scrittura questo carico e quanta energia le ha dato poter interpretare queste voci?
Quest’ombra degli altri sulla mia parola, o il fatto che la mia scrittura possa essere ripresa da altri, penso si ritrovi modificando la struttura del romanzo: è un problema di struttura, non semplicemente di frasi o di parole. Il romanzo cioè non può essere la storia di un personaggio principale, quindi importante, non può essere narrato da un portavoce in mezzo a personaggi secondari. Per me non c’è un vero personaggio principale. Così mi è stata utile la struttura che ho usato nel film La Nouba des femmes: ciascuno al proprio turno. Non appena si è portato in scena un personaggio perché la sua parola gli permetta di liberarsi, questo personaggio deve lasciare il posto ad un altro e a un altro ancora. Questa è una difficoltà anche perché scrivo in francese e nello stesso tempo in questo francese non cerco l’esotismo, non cerco l’occhio del pittore, perché qui non è un problema di vista. Il francese è così lontano dal mio dialetto, il berbero! È una lingua latina, quindi una lingua logica. Me ne sono resa conto anche oggi, qui a Pordenone dove si percepisce l’ombra di Pasolini: la letteratura italiana mantiene i dialetti. Veramente prima di Pasolini, nella mia giovinezza, sono stata influenzata da Pavese, che è simile a lui, anche se è di un’altra regione. In lui c’è questo rapporto con la provincia, con la campagna e in campagna non c’erano solo paesaggi diversi, c’erano anche suoni linguistici diversi. Bisogna essere sempre più fedeli al proprio orecchio e fedeli a una sorta di ‘non ruolo principale’. Per questo la maggior parte dei miei romanzi, a partire da Donne di Algeri nei loro appartamenti, sono composti di racconti. Donne di Algeri nei loro appartamenti è una raccolta di racconti che si svolgono nell’arco di 20 anni. Ma quando i miei personaggi parlano, quando dialogano, devo fare capire al lettore che si tratta di un francese tradotto dall’arabo, perché in fondo non contano le parole da tradurre, ma il fatto che ogni lingua ha il proprio silenzio, il proprio pudore, la propria struttura. Ci sono cose che si possono dire in francese ma che non si potrebbero dire in arabo. E questo anche se resto all’interno dell’universo femminile: perché dopo tutto le donne della mia infanzia e della mia adolescenza vivevano piuttosto separate dagli uomini, dunque si poteva, si può fare a meno degli uomini. Noi praticavamo anche una sorta di segregazione sessuale, cosa che io non cerco assolutamente. Nello spazio del mio romanzo ci sono molte donne, ma tra loro c’è una grande differenza, prettamente di natura, a seconda che siano della stessa età o che ci siano delle donne più anziane o più giovani. Perché alla fine le vere barriere sono anche queste: non si possono dire certe cose alla propria madre o alla nonna, o a una donna di una certa età, e nello stesso tempo passa la tenerezza. Quindi credo che, una volta compreso l’essenziale, queste parole finiscano per circolare intorno alle donne della mia cultura. Oggi penso di non avere più neppure questa preoccupazione, scrivo ed è tutto. Ma da quando ho creato questa struttura, tra Donne di Algeri nei loro appartamenti e L’amore, la guerra, ogni libro si costruisce all’interno di una struttura polivalente. Per questo i miei libri non saranno mai dei best-seller in Europa, in senso commerciale, perché quando sono arrivata, venti o trent’anni fa, tutti dicevano ‘è algerina…’ e mi guardavano come un uccello raro. Ora però è tutto finito, ci sono molte scrittrici, ma i lettori cercano il piccolo dettaglio ‘tipico’, mentre la differenza tra le due stesse rive del Mediterraneo è molto più profonda. La vera pesantezza, che c’è e che ha gravato su molte generazioni, è stata il divieto di parola e il divieto di vedere per metà della nostra società. Allora recuperare tutto questo significa prima di tutto collegare i differenti strati che ci sono tra di noi e non soffermarsi sul ‘tipico’. Così, visto che in Algeria non ci sono molti editori e non c’è un grande impegno culturale, i miei libri vengono pubblicati a Parigi e sono letti più in Italia, Germania, o Spagna che nel mio paese, tranne che in ambiente universitario. Dopo aver compreso che devo essere fedele soltanto alla condizione in cui si trova la mia società, e aver scoperto come far circolare la parola e lo sguardo in rapporto al bene, alle donne che sono state come me nella mia giovinezza, ora non sento più il dovere di fare dichiarazioni né estetiche né politiche. Svolgo il mio lavoro come un artigiano o come un artista, scrivo un libro, poi l’altro e così via.
Tra l’arabo e il francese, con il bisbiglio del berbero, lei racconta anche che dopo aver scritto L’amore, la guerra ha avuto bisogno di uno spazio terzo, di un territorio neutro, che ha trovato in due estati trascorse a Venezia.
Lei si riferisce ad un libro che è stato davvero molto difficile concludere, perché il problema principale era prima di tutto la rievocazione della lunga guerra coloniale tra i francesi e gli algerini, raccontata dal punto di vista delle donne. Era ancora più complesso perché le donne vivevano segregate, ma allo stesso tempo si sentivano coinvolte, e per me parallelamente era difficile perché scrivevo in francese e dovevo capire cosa significava per me il francese. A poco a poco avvertivo questa opposizione insita nella struttura stessa del mio libro: non solo parlavo dell’altro, il conquistatore dopo il diciannovesimo secolo, ma dovevo anche far passare il mio francese dall’altra parte, dalla parte dell’ex nemico e dalla parte delle donne nascoste, quindi dalla parte araba. Non sapevo come trasformare questo faccia a faccia alimentato dal passato e riassorbito in un libro, che non rappresenta un punto di arrivo, ma piuttosto l’ingresso in uno spazio nuovo. E’ stato per caso che ho trovato questo ‘spazio terzo’: ero venuta a Venezia in occasione del Festival del cinema per il mio film e ho avuto un colpo di fulmine, che forse mi aspettavo. Sono stata a Venezia due mesi, per due estati di seguito. Abitavo vicino al Ponte dei Greci, quindi davvero in centro: uscivo molto la mattina e la sera, evitavo i turisti e i luoghi turistici, anche se non era molto facile durante l’estate. Ho sentito subito che questa città per me funzionava come una medina, per la semplice ragione che non c’era il rumore delle macchine. Mi svegliavo la mattina molto presto, la mia camera si affacciava su una piccola stradina e per la prima volta dopo trent’anni venivo svegliata dai passi della gente. Oggi in una città, ad eccezione di Venezia, non si sentono le persone dalla finestra, non si sente il rumore dei loro passi prima di vederle comparire. Questo piccolo dettaglio mi ha riportato alla medina della mia infanzia: quando mi svegliavo avevo la sensazione di essere ancora bambina a casa di mia nonna e quelli che sentivo erano i rumori che provenivano dall’esterno, i passi. A partire da lì ho avuto una specie di colpo di fulmine e ho visto che Venezia si può sentire totalmente nel cuore anche se si è ciechi. Ho iniziato allora a cogliere le differenze, ho iniziato a riconoscere il dialetto veneziano in rapporto all’italiano. E finalmente ho provato ad essere semplicemente in una medina liquida, o comunque in una medina dove le donne sono libere di camminare anche di notte. Per me era una rivoluzione. Si tratta comunque di una rivoluzione con un’origine comune: potrei raccontare delle storie del sedicesimo secolo quando Hassan il Veneziano era anche il re di Algeri. Quindi le cose lontane possono avere origini comuni: dal suono si arriva alla storia e si comprende dalla storia il passaggio tra nord e sud. È semplicemente a partire da questi piccoli dettagli che ho potuto camminare felice per le calli, comprare il pesce come una veneziana, ascoltare nei bar gli uomini che parlavano come nelle città arabe e scrivere il mio libro come nessun altro autore può fare, descrivendo, come hanno fatto cento autori, la mia Venezia personale, vista come una medina. Grazie a questa situazione ho potuto terminare il mio libro e se si osserva la struttura de L’amore, la guerra, si vede un altro elemento che mi è stato d’aiuto: la musica di Beethoven. C’è un’ultima parte del libro, in cui la struttura imita quella di una sonata di Beethoven. Quindi, ‘quasi una fantasia’, sono riuscita a terminare il mio libro a Venezia, perché mi si è aperta la vista, perché è scomparso il gioco del narratore presente per più di due o tre paragrafi. Tutti i personaggi che ho incontrato nel mio film ritornano e ci sono delle visioni che ruotano come quando a Venezia ci si sposta da un campo all’altro e si attraversano tante piccole calli.
Nel rapporto tra le diverse lingue e culture, quanto è necessario uno spazio terzo, uno spazio neutro per far incontrare due linguaggi e due modi di pensare differenti?
Posso dire, da questa esperienza vissuta circa vent’anni fa, che sono sempre di più le donne della classe media (non parlo degli immigrati clandestini, dei sans-papier ma delle piccole classi medie in cui sono avvenuti cambiamenti molto forti da oltre vent’anni in tutto il mondo arabo), ci sono sempre più donne tra i diciotto e i trent’anni che ritrovano dentro di sé il proprio spazio neutro e ancora di più lo trovano quando tornano a casa, perché l’obiettivo non è più quello di rompere con la società di origine e di fuggire per sempre, ma di ritornare. Questo è il problema con cui ho a che fare anche oggi: non cerco più lo spazio terzo per poter continuare a scrivere, ma piuttosto ho vissuto con il desiderio del ritorno, e il mio ultimo libro dal titolo La scomparsa della lingua francese, non ancora tradotto in italiano, è la storia di un uomo algerino che ritorna e poi scompare perché è francofono. Quindi c’è anche l’elemento del non ritorno, e un bel giorno anche voi lo scoprirete. Quando si va avanti con la scrittura, il problema non è più come usare la scrittura, ma per lo scrittore come per tutti gli esseri umani, man mano che si progredisce credendo di aver risolto dei problemi, se ne presentano altri.
La storia del suo Paese e la sua storia personale sono intrise di esperienze di violenza. Che rapporto c’è tra la violenza che c’è intorno a lei e che in questi anni sembra espandersi a macchia d’olio, e la sua scrittura?
Nel mio caso, negli anni ’90 si è manifestata un’Algeria violenta dove all’improvviso la violenza non era semplicemente quella della parola, né quella della segregazione, né quella dell’ingiustizia, ma diventava veramente uccidere chi non ha la tua stessa opinione, quelli che non credono di avere la tua stessa opinione. Io l’ho vissuta, anche se vivevo a Parigi e negli Stati Uniti. Quando ero a Parigi tra il ’93 e il ‘95, l’ho vissuta quasi ogni settimana con un amico, un poeta, uno scrittore o un parente che moriva in una maniera orribile. Ho scritto a questo proposito un libro, Bianco d’Algeria, in cui ho cercato di attraversare questa condizione. È l’unica volta in cui la mia scrittura è stata per me una forma di terapia. Se non avessi scritto, avrei dovuto sicuramente prendere delle pillole per dormire e mi sarei ammalata. È uno scrivere faccia a faccia con la violenza, ma per caso ci si trova in uno spazio lontano: c’è quindi allo stesso tempo la possibilità di rivivere ciò che hanno vissuto gli amici o i parenti e rivestire il brutto ruolo di chi è al sicuro e non sa cos’altro fare se non scrivere. È proprio questa ambivalenza che ti crea il bisogno assoluto di scrivere. Ma per l’Algeria e per il mio libro mi sono resa conto che lo stato di intellettuale e di scrittore, soprattutto perché si scrive in un’altra lingua, ti rende un bersaglio e a partire da lì ho visto che il secondo bersaglio erano le donne. Molte donne nel mio paese sono state uccise perché erano insegnanti di francese, perché non indossavano lo chador e le giudicavano male. Molte donne nelle piccole città sono diventate delle eroine perché hanno detto no, non hanno ceduto, hanno continuato a credere che fosse una follia e hanno pagato con la vita o con la tortura.
La spirale della violenza è andata avanti e devo ammettere di essere andata negli Stati Uniti per scrivere contemporaneamente da una posizione più vicina e più lontana. La cosa strana è che dopo cinque anni sono arrivata a New York, quindici giorni prima dell’11 settembre. Vivevo dalle parti di Manhattan e avevo l’impressione di ritrovarmi nel quartiere latino della mia giovinezza. Poi improvvisamente, proprio mentre scrivevo liberamente come se fossi giovane traendo stimoli da un paese a cui sono costantemente legata nella scrittura, quindici giorni dopo ho dovuto lasciarmi tutto alle spalle, e ho avuto l’impressione che tutto ciò che mi ero lasciata alle spalle fosse nuovamente accanto a me. Allora ho camminato, mi sono guardata intorno, ho guardato le foto delle persone scomparse e mi sono accorta che quella parte di New York era diventata subito la mia città, più che se avessi abitato lì da dieci anni. C’è dunque una sorta di fratellanza, ma poi gli eventi americani sono proseguiti in modo inatteso, la violenza è aumentata e si è generalizzata e io stessa, forse per la mia età, sto tornando a un tipo di scrittura in cui cerco un luogo di pace, un luogo di approdo. Direi che la violenza non è sempre nei luoghi in cui è visibile; resta la violenza sotterranea, la violenza contro le minoranze, quella contro i clandestini. Non siamo coinvolti direttamente in conflitti o scontri tra civiltà, come dicono i giornali a grande tiratura, ma siamo forse al termine delle società. Dopo tutto oggi mi trovo in un paese latino e sono tra miei compatrioti, perché tutti hanno dimenticato che Agostino era berbero, era algerino e si era battuto contro la violenza del movimento scismatico dei donatisti. Sono appena tornata da Oxford dove ho lavorato per due mesi per una conferenza di un’ora proprio su Sant’Agostino e lì ho cercato di raccontare, o almeno di prevedere, come potrò far entrare un personaggio tanto grande nel mio prossimo libro.
(Intervista realizzata a Pordenone il 20 marzo 2004. Traduzione di Liana Mistretta. Si ringraziano per la collaborazione Letizia Tesorini e Laura Napoleoni)
Vedi anche: Assia Djebar: Queste voci che mi assediano