Last Updated on 28 Agosto 2018 by CB

Nell storia dell’arte occidentale i gatti sono sempre stati impiegati come simbolo di femminilità e di sensualità femminile. Basti pensare all’Olympia di Manet; si ispirò alla Venere di Urbino di Tiziano, ma mentre in questa c’è un cagnolino che dorme, ai piedi dell’Olympia c’è un gatto nero con gli occhi sgranati che si stiracchia, nascosto dallo sfondo scuro. Anche in un altro suo quadro, Femme au chat, dipinge un gatto: la moglie, la pianista olandese Suzanne Leenhoff, appare con il suo Zizi.
La storia della fotografia non è da meno. Nei loro autoritratti le fotografe si sono spesso appropriate dei gatti, spingendosi fino alla metamorfosi o all’ibridazione.

L’autoritratto Io+Gatto (1932) di Wanda Wulz ne è un esempio, interessante sia sul piano estetico che su quello tecnico. Ottenuta dalla sovrimpressione dell’immagine del suo viso e di quella del suo gatto, presi di fronte, la sorprendente opera della fotografa formatasi a Trieste nell’atelier del padre ebbe molto successo all’esposizione futurista organizzata da Marinetti nel 1932. Segue di poco l’Autoritratto con gatto nero di Madame d’Ora, Dora Kallmus. La fotografa fissa lo spettatore e accarezza con grandi mani bianche un gatto nero con le orecchie ritte. In questo che con tutta probabilità è il suo unico autoritratto la grande signora ella fotografia della moda e della società parigina si presenta come un essere dall’erotismo misterioso.
Per trovare altri gatti nella fotografia di quel periodo, forse più ‘ingenui’ ma non meno enigmatici, basti pensare a André Kertész: ed è ancora lui, il gatto nero, protagonista.
