Bapsi Sidhwa

Last Updated on 20 Marzo 2004 by CB

«Siamo in un mondo nel quale sempre di più la potenza è di per sé giusta, i valori etici e morali sono finiti. Il mondo non è più regolato dall’onore, non c’è più neppure la finezza, ma ci si basa sull’ipocrisia, sulla potenza come diritto». In poche parole, nel rispondere a una domanda sull’11 settembre, Bapsi Sidhwa esprime forse la motivazione più forte, quella etica, che l’ha spinta e la spinge a scrivere.

La sua aria mite e il portamento quasi dimesso, così come il tono tranquillo della sua voce non devono ingannare, le traversie che ha vissuto sono molte, da quella spartizione dell’India che vide da piccola, e che ha raccontato mirabilmente, con gli stessi occhi da bambina, ne La spartizione del cuore; il coraggio di scrivere i suoi libri in inglese in quel Pakistan in cui pochi osavano farlo; la sfida di mettere al centro di un romanzo i Parsi, il popolo cui appartiene, ridotto ormai a 120.000 unità nel mondo: la presentazione del suo libro in Pakistan fu accolta da un attentato; il suo trasferimento a Houston, con quell’abilità tutta Parsi di ambientarsi in un Paese nuovo.

Le costanti della sua narrativa sono l’attenzione alla condizione della donna – La sposa pakistana è il libro che ne ha determinato il successo internazionale – e la ricerca dei suoi personaggi di come dirigere il proprio destino per i sentieri molto stretti che la tradizione e le gabbie sociali lasciano in molte aree del mondo. Grande umanità, racchiusa anche nel suo sorriso aperto, e tono umoristico e ironico (legato anch’esso al Dna Parsi) capace di insediarsi tra i drammi della vita. L’intervista a Bapsi Sidhwa l’abbiamo realizzata a Mantova, nel settembre scorso, sulle rive del Mincio.

L’intervista di Luciano Minerva

Il colonnello Bharoucha nella sua La spartizione del cuore parla dei profughi e dei Parsi in particolare che hanno la capacità di «mescolarsi come lo zucchero nel latte». E’ un atteggiamento che è importante anche per tutti quelli che si spostano da un Paese all’altro?
Sì, è molto importante, per chi va come rifugiato in un altro Paese, sciogliersi come lo zucchero nel latte, cosicché arricchiscono la loro società, non stanno davanti alle porte degli altri, non creano ostacoli, e si adattano, diventano leali al Paese che li ospita. E noi Parsi, poiché non abbiamo un nostro Paese, abbiamo imparato ad amare ogni Paese che ci dia rifugio e ad essergli molto leali. Localmente, dovunque siamo, sia in India che in Pakistan, noi siamo comunque amati per alcuni nostri comportamenti: cerchiamo di aiutare la gente, siamo famosi per essere disponibili e onesti e dobbiamo rispettare questi comportamenti per essere accettati. Noi siamo rifugiati, siamo una nuova popolazione, così per essere accolti dalla nuova cultura bisogna essere davvero adattabili. In uno dei miei libri dico: dobbiamo essere come camaleonti, assumere il colore di ogni Paese a cui si appartiene.

Che cosa rappresenta, per uno scrittore che appartiene a una popolazione che ha dimensioni sempre più ridotte, raccontare questa cultura?
Noi siamo in pericolo… Siamo davvero pochi nel mondo e il mio primo libro Il talento dei Parsi è stato il primo libro sui Parsi, scritto sulla mia piccola comunità. Nella maggior parte dei miei libri molti dei personaggi sono Parsi, ma il nostro è un mondo molto piccolo, così i miei libri hanno anche caratteri musulmani, hindu, sikh, perché l’India è un Paese poliglotta, con una grandissima varietà di popolazioni. Ho tentato di descrivere o di integrare nella mia narrazione molti di loro, ma appartenendo a una comunità così minoritaria la sensazione è quella di essere marginalizzati, così viviamo a parte rispetto a chiunque altro, e questa posizione ci dà una miglior capacità di osservazione degli altri.

I suoi personaggi in alcuni casi si sentono come degli animali in gabbia. Ma poi hanno grande coraggio nell’affrontare il destino. Che rapporto c’è in loro tra il destino e le loro storie?
In una parte del mondo, specie tra le donne, qualcun altro controlla sempre la loro vita: il marito, il fratello, il padre: gli uomini controllano ampiamente la loro vita, cosicché loro hanno un controllo davvero piccolo sul proprio destino. La protagonista Zaitoon si era sposata in una tribù ai confini dell’Afghanistan e lì era davvero infelice. La sua decisione di fuggire dal matrimonio è davvero drastica, ma sente che per salvare la vita deve fuggire, così prende il coraggio nelle proprie mani e scappa. Credo che il destino abbia una parte importante in tutte le nostre vite ma, se possono, nei miei libri le persone ne prendono il controllo: non ne hanno la possibilità che si potrebbe avere in Occidente, ma tutti gli esseri umani vogliono progredire con la loro vita e prenderne ogni volta il controllo che gli è permesso.

Proprio ne La spartizione del cuore lei usa lo sguardo di una bambina, che poi è lei stessa bambina. Come funziona l’occhio del bambino per raccontare le vicende storiche?
E’ molto importante che questa storia della spartizione dell’India sia presentata attraverso gli occhi di una bambina piccola, perché sono davvero innocenti, non hanno ancora imparato i pregiudizi dei grandi, a odiare gli altri: i musulmani sono fatti in quel modo, gli hindu in quell’altro: crescendo impariamo queste cose e questa bambina vuole parlare degli scontri che si determinano a causa di questi pregiudizi, quindi presenta le cose così come le vedono i suoi occhi innocenti. Un altro elemento importante è che la bambina è una parsi, non è hindu né musulmana, quindi può guardare le cose con maggiore obiettività: è come se, attraverso gli occhi di un bambino, fosse possibile presentare la verità. E poi la visione dei bambini a volte è incerta, così dà un tono ironico a gran parte della storia. Mi è sembrato un delizioso strattagemma.

A proposito della fine della colonizzazione inglese lei parla di «mistero degli europei svanito». Quanti misteri sono svaniti in questi ultimi anni nei confronti del mondo occidentale?
Quando gli inglesi colonizzarono l’India, erano un’entità sconosciuta, erano molto potenti, così in certo qual modo erano misteriosi per la gente e noi avevamo anche molta paura per il loro potere troppo grande. Avevano assunto il potere dei sultani e li avevano lasciati come dei pupazzi. Quando gli inglesi hanno lasciato l’India, in seguito al movimento indiano guidato da Gandhi e Nehru, si è capito che non erano così onnipotenti e misteriosi. Poi, grazie alla televisione e alla radio, questo mistero è lentamente svanito. Ora sappiamo molto di più delle altre parti del mondo, così come l’Occidente oggi conosce molte più cose sull’Oriente. La cultura occidentale è decisamente dominante, quindi oggi ci sembra di conoscere molto di più. La cosa sorprendente è che dopo 300 anni di colonizzazione, se visitate l’India e il Pakistan, sembra che la colonizzazione non ci sia stata. Sono rimaste pochissime tracce, è finita, perché la cultura indiana è dominante, è lì, è impossibile cambiarla.

Raccontando il Pakistan dopo la divisione lei parla di un giardino monocromatico e ricorda con nostalgia quando il giardino conteneva molti fiori. E’ ancora possibile pensare a giardini di molti fiori e a popolazioni che riescano a vivere in modo pacifico tra loro? E dove?
Prima della spartizione c’erano molti fiori, gli hindu, i sikh, i musulmani, comunità colorate che vivevano insieme. Se si andava in un giardino si potevano vedere persone di ogni specie: i sikh con i turbanti, le ragazzine musulmane con il trucco, gli hindu con i sari e i loro drappi di stoffa, e questo aggiungeva molto colore. Ma dopo la divisione dell’India, in particolare nel Punjab, dove vivevo, a Lahore, tutti i sikh e gli hindu furono cacciati via, fuggirono dal Paese e a Lahore arrivarono i rifugiati musulmani. È diventato un popolo solo, quello dei musulmani, e improvvisamente Lahore ha perso il colore della sua popolazione. Credo che sia molto più emozionante avere una varietà di persone che vivono insieme, perché questo arricchisce la propria vita. In India ora ci sono ancora molti gruppi di persone differenti: hindu, musulmani e sikh, ebrei, buddisti, parsi che vivono insieme, e questo aggiunge colore. E se l’India volesse diventare hindu e non laica, sarebbe un peccato. Una cosa interessante dell’America, dove vivo ora e che è considerata un melting pot, è che ci sono moltissime persone dall’India, dal Pakistan, dall’America Latina. Ci sono afro-americani, una grande varietà di persone, molti cinesi, vietnamiti. A volte, a Houston sento che ci sono pochissimi americani bianchi; ci sono musulmani, vietnamiti, messicani e indiani, perché ne vedo tantissimi e questo arricchisce la vita e la cultura dell’America.

Lei racconta anche di come gente normale, di villaggi normali della vecchia India, a un certo punto si sentì più hindu, più musulmana, più sikh, e ci fu una spaccatura non solo nella geografia, ma anche nelle persone. Cos’è oggi l’appartenenza a una cultura, a una religione, a una nazionalità, senza rompere la propria identità?
Prima della divisione dell’India i vari gruppi religiosi vivevano in una sorta di armonia, e anche molto prima che arrivassero gli inglesi i musulmani e gli hindu avevano imparato ad adattarsi reciprocamente e vivere insieme. Al momento della divisione, all’improvviso… vediamo attraverso gli occhi di questa bambina! Lei non vedeva nelle persone nient’altro che esseri umani. C’erano persone che si occupavano solo delle sue necessità senza bisogno che lei ne conoscesse il nome: persone che si prendevano cura di lei, le massaggiavano le gambe, le porgevano un gelato. E all’improvviso lei ha capito che queste persone non avevano solo dei nomi ma anche delle religioni, e che queste religioni potevano differenziare o separare le persone. Sebbene la religione stessa faccia appello a ciò che c’è di buono nell’uomo, è l’uomo stesso che l’ha alterata e usata per promuovere i suoi fini politici.

Evidentemente è successo questo in India e Pakistan. E avviene ancora: le persone si definiscono non in base alla loro nazionalità, ma in base alla loro religione. In particolare in questo momento l’India ha perso la sua natura laica: gli hindu vorrebbero che fosse hindu e che i musulmani non vivessero lì. Questo sta creando moltissimi problemi, come se la spartizione non fosse finita e fosse ancora in corso. La religione sta agendo come una forza di divisione. Se andate in America, improvvisamente si nota quella che io definisco ‘islamofobia’: è lo stereotipo negativo dei musulmani, considerati generalmente e ingiustamente come terroristi. Quando parlano di musulmani usano sempre la parola ‘estremisti’, e così si crea uno stereotipo che rende le persone diverse. Anche se come zoroastriana so che non c’è molta differenza tra la religione ebraica, musulmana e cristiana: sono tutte religioni di Abramo: i musulmani credono in Cristo quanto credono in Maometto. Quindi tutti questi elementi negativi creano problemi e usano la religione per creare divisioni. Credo che non sia possibile vivere senza religione, è molto importante a livello personale per ogni individuo, tuttavia sembra essere usata come una forza molto distruttiva, a volte.

Tutto il libro La Sposa pakistana racconta del vero e proprio apartheid sessuale di quella parte del mondo, di chiusura totale, di prigionia. Sta cambiando qualcosa oggi in India, in Pakistan, in Afghanistan nella condizione della donna?
La condizione della donna dipende dalla classe di appartenenza. In India e Pakistan se le persone sono ricche e appartengono ad una classe agiata cercano di istruire le loro figlie, così la loro situazione migliora. Ma la maggior parte delle persone è molto povera soprattutto in Pakistan, quindi le donne vengono trattate ancora come viene descritto nella storia di Zaitoon, sebbene La sposa pakistana sia stato scritto vent’anni fa e parli delle tribù delle aree montane tra Afghanistan e Pakistan, nelle montagne di Karakorum. La loro condizione non è affatto cambiata, è sempre la stessa. L’insicurezza è aumentata a causa dei recenti avvenimenti: i bombardamenti in Afghanistan e le ripercussioni nel Pakistan settentrionale. A causa di questa insicurezza, la condizione delle donne è peggiorata ancora. Questa insicurezza in Afghanistan ha causato l’inizio del fenomeno dei rapimenti di molte donne, e questo è il motivo per cui le donne hanno iniziato a nascondersi dietro i loro veli: per loro era l’unica protezione. L’Afghanistan è stato distrutto dall’Unione Sovietica, poi dai bombardamenti americani; non è rimasto in piedi neanche un muro.

Quindi come potrebbe essere protetta una donna se c’è anarchia? L’unico modo che gli uomini hanno trovato per proteggere le donne è stato di nasconderle dietro al velo. Anche oggi, se dite ad una donna afgana di togliere il velo, lei non lo farà perché pensa che domani gli americani potrebbero andare via, che potrebbe sparire anche quel minimo di sicurezza e gli uomini potrebbero vedere che è una donna giovane e bella, prenderla di mira, rapirla e stuprarla. Molto dipende dai problemi della sicurezza, poi dal grado di povertà delle persone: i più poveri sono nell’area pianeggiante del Pakistan, non nelle montagne dove le persone sono più tradizionaliste e più del 99% dei matrimoni sono combinati e spesso si sposano tra loro i cugini di sangue: vogliono tenere le ragazza all’interno della famiglia. Quando non possono trovare una cugina, allora comprano una donna. È il contrario dell’India, dove c’è un sistema basato sulla dote: il padre della ragazza dà del denaro al padre del ragazzo. Qui è il contrario: il padre del ragazzo dà il denaro al padre della ragazza quasi per acquistarla. Quando compri qualcuno, rendi la posizione della donna molto vulnerabile. Quando ci si sposa tra cugini la posizione della donna è di gran lunga migliore, perché la suocera è generalmente la zia e tutti sono stati allevati insieme. Ma quando si proviene da una famiglia completamente diversa e si è pagato del denaro per avere la ragazza, la posizione della donna è molto più vulnerabile e tutti la dominano, la trattano male. In India è la stessa cosa tra le donne povere o quelle della classe media, in cui vige il sistema della dote, perché ogni volta che un uomo si sposa riceve molto denaro dalla famiglia della moglie, quindi abbandona la moglie in modo da potersi risposare e prendere ancora denaro. Questo avviene solo nelle classi molto povere, e perfino a Houston, dove ci sono dottori sposati con due donne che non se la cavano molto bene. In generale la posizione delle donne è oppressa, in particolare tra le classi più povere. Ma le donne ora stanno finalmente lottando per loro stesse. Nessuno può lottare per loro, se non loro stesse, e lo stanno facendo sempre di più. In alcuni governi, come quello di Benazir Bhutto, il cui padre era il presidente predecessore di Musharraf, ci sono persone liberali che tentano di aiutare le donne a progredire. Quindi, da quando il governo sostiene questa lotta, la posizione delle donne è decisamente migliore. (Si ringrazia Letizia Tesorini per la collaborazione alla traduzione)

Bapsi Sidhwa
Appartenente alla piccola comunità Parsi, Bapsi Sidhwa nasce a Karachi in Pakistan, e cresce a Lahore dove studia diplomandosi al Kinnaird College for Women nel 1957. Impegnata nel movimento per la difesa delle donne asiatiche, nel 1975 ha rappresentato il suo Paese in occasione dell’Asian Woman’s Congress.

Ha svolto l’attività di consigliera nella Commissione per lo Sviluppo delle Donne, ed è stata anche Segretario volontario della destituita Casa delle Donne e dei bambini di Lahore per molti anni, impegnandosi per il riconoscimento dei loro diritti. Ha insegnato scrittura creativa in diverse università americane: Rice, University of Huston, Columbia University.

Ha collaborato a lungo come critico letterario per lo Houston Chronicle. Tra le sue opere letterarie tradotte in Italia ricordiamo: La spartizione del cuore (1999), che è stato riconosciuto con il New York Times Notable Book nel 1991 e ha ricevuto in Germania il Literature Prize; Il talento dei Parsi (2000); La sposa pakistana (2002). Dal romanzo La spartizione del cuore è stato tratto il film Earth, scritto e diretto dalla regista indiana Deepa Mehta (1999). Nei mesi di marzo e aprile del 2003, ha messo in scena a Londra la rappresentazione teatrale del libro An American Brat dal titolo Sock’em with honey. È stata insignita del prestigioso premio pakistano Sitara-i-Imtiaz nel 1991. Oggi vive in Texas (USA), con il marito e tre figli.(dal sito www.festivaletteratura.it)

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