Last Updated on 7 Ottobre 2009 by CB
Daniel Mendelsohn scrive di letteratura, cinema e teatro sulla New York Times Book Review, sul New Yorker, sulla New York Review of Books. È autore di The Elusive Embrace: Desire and the Riddle of Identity (1999) e di uno studio accademico della tragedia greca, Gender and the City in Euripides’ Political Plays (2002). Nel 2006 ha pubblicato Gli scomparsi (Neri Pozza 2007), inchiesta-romanzo sulla Shoah. Mendelsohn insegna presso il Bard College, e ha pubblicato un’edizione critica delle opere di Kavafis. Al Festivaletteratura ha parlato del suo ultimo saggio.
Il titolo del suo libro è How beautiful It Is and How Easily It Can Be Broken. Che cosa è questa cosa meravigliosa, e che può essere distrutta?
Il titolo del libro in inglese viene da un’opera di Tennessee Williams. Nell’opera “IT” (esso), l’oggetto, si riferisce ad una statuetta in vetro di un animale. E dice che quando si guarda un animale di vetro si pensa a quanto sia bello e a quanto facilmente possa rompersi. Ma per quanto riguarda il mio libro “it”, si riferisce semplicemente alla cultura in generale e le opere d’arte che esamino nel libro, in questo saggio. Non sono altro che considerazioni di opere d’arte, letteratura, opere teatrali, attraverso le quali cerco di analizzare ciò che le rende belle o no ed esaminare, in modo più ampio, come l’interpretazione temporanea di grandi opere letterarie a volte può danneggiare il significato reale di quei lavori. E’ da qui che viene il titolo.
Gli autori dei quali lei parla nel suo saggio sono molto disparati, diversi. Ci sono Virgina Woolf, Henry James, ma c’è anche Ang Lee con il suo film Brokeback Mountain. C’è The Hours di Michael Cunningham. Che cosa unisce questi lavori nella sua visione critica?
“Non sono snob… guardo tutto. Personalmente mi interessano molto i punti d’incontro tra la cultura alta, la cultura classica e la cultura popolare. Non faccio distinzioni. Le cose sono là fuori e, a volte, catturano il mio interesse. Mi piace Virginia Woolf, e così quando è uscito il romanzo di Michael Cunningham (pron. Canningham) ho pensato che potesse essere interessante. Il film tratto dal libro era un po’ come con le bambole russe, le matrioske, una all’interno dell’altra, ed era molto interessante”.
“In fondo mi piace guardare tutto. D’altra parte, ci sono caratteristiche che accomunano queste opere. Mi interessano molto le opere che trattano di personalità fragili, di identità sessuale: è su questo che ho scritto la mia tesi. Mi interessa molto il modo in cui la cultura predominante tratta la rappresentazione delle donne, e questa è la ragione per cui mi sono interessato a The hours, al film di Sofia Coppola Maria Antonietta e ad Amabili Resti di Alice Sebold. Le donne sono importanti nei libri e lo sono in generale, e parlo ovviamente di culture antiche, data la mia formazione. Io sono come tutti, vado al cinema, e se il film mi interessa, ne scrivo”.
Facciamo anche noi una mescolanza tra cinema e letteratura. Lei parla approfonditamente di un libro che ha fatto molto discutere, Le benevole di Jonathan Littell. E parla molto profondamente anche di Quentin Tarantino e del suo eccesso metalinguistico, meta cinematografico di violenza. In entrambe opere c’è un eccesso, però l’eccesso di Littele è da lei considerato con molta indulgenza e dè apprezzato, mentre quello di Tarantino è molto stigmatizzato, è visto con molto distacco. Mi spiega qual è il suo punto di vista?
E’ una domanda interessante. Direi che per me questa sorta di eccesso della violenza, che certamente è una caratteristica di entrambi i lavori, nel caso di Littell è stata ricevuto in modo abbastanza stupido negli Stati Uniti . Penso che il mio lavoro di critico non debba necessariamente limitarsi a giudicare se un’opera è buona o no, ma anche cercare di capire, in primo luogo, cosa l’autore pensava di creare, ed è questo che ho cercato di fare con Littell. Il suo modo di trattare la violenza ha una tradizione letteraria e intellettuale, nella quale essa deve necessariamente significare qualcosa. Lui cerca di usare la violenza per scioccare i suoi lettori, vuole scrivere un libro sull’Olocausto che sia scioccante, una cosa difficile ora, in quanto siamo abituati all’Olocausto. In un certo senso cerca di fare qualcosa di estetico, ma non credo che ci sia riuscito completamente; penso però di comprendere ciò che ha cercato di fare.
Tarantino mi preoccupa perché rappresenta una nuova specie della cultura cinematografica. E’ una persona che al di fuori del cinema non sa niente, e ciò gli permette di creare film interessanti, pieni di allusioni e riferimenti, in una sorta di piccolo gioco, in un gioco post-modernista. La violenza è reale e credo che sia un po’ pericoloso quando si tratta soltanto di un gioco. Credo che sia questa la differenza con Tarantino: che ha una sorta di, diciamo, racconto ingenuo alla Monroe; cioè parla di cose senza capire veramente cosa siano, perché le conosce solo attraverso i film invece che attraverso la vita. Penso che forse sia questa la differenza.
Restiamo sul romanzo di Littell. Lei nel suo saggio distingue due piani: uno storico e uno diciamo legalo alla ‘psicopatologia’ del protagonista. E in questa duplicità lei vede una debolezza del romanzo, perché entrambe le parti sono fatte molto bene, sostiene…
E’ un fenomeno che mi intriga molto. Lo ammiro. Si tratta di un autore ambizioso, lo sono anche io, siamo tutti ambiziosi. Credo che la stessa cosa si possa dire riguardo al mio saggio su Middlesex che ha lo stesso tipo di problema. Littell sta cercando di fare troppo. Mi piacciono le due parti di questo libro, ciascuna funziona separatamente ma non credo che funzionino insieme. Questo aspetto del libro su una sorta di mostruosità morale, dove il personaggio dovrebbe essere il cattivo nella sua forma più radicale – è l’omicida dei genitori, è omosessuale, c’è incesto – ha sovraccaricato l’aspetto morale-grottesco del personaggio, che rimane comunque interessante e ben fatto, e viene da Georges Bataille e altri. D’altro canto ha scritto questo libro meraviglioso che riesce in una cosa molto difficile: avvicinare un lettore qualunque all’esperienza di un carnefice nazista. O si capisce il personaggio, che lui descrive molto bene, o lo si ritiene un mostro incomprensibile: i due aspetti non funzionano insieme. Lo valutato molto interessante, ma non sono un critico che scrive recensioni per Amazon e che, ad esempio, dice 4, 5 stelle… il mio lavoro è cercare di capire cosa succede e, sebbene non sia stato un grande successo, era comunque interessante, e questa è la miglior cosa da dire.
Lei ha scritto il Gli scomparsi, un romanzo sulla Shoah e sulla sua famiglia che l’ha subita, dunque sulle vittime. Quale pensa sia il punto di vista più efficace per raccontare questo inferno della storia, quello delle vittime o dei carnefici?
Direi che, e non lo dico per essere vago, c’è bisogno di entrambi. Questo è un evento storico particolarmente importante, come lo sono tutte le guerre e questo in particolare perché ci è vicino nel tempo. Bisogna avere più di uno scritto sull’argomento. Non si può decidere se è più importante il punto di vista delle vittime o dei colpevoli, sono entrambi parte dell’evento storico e tutti e due vanno analizzati. Spesso mi muovono delle critiche perché dicono che i miei libri parlano di minuzie, analizzano la vita quotidiana, i sentimenti, perdendo di vista l’immagine più ampia dell’evento e poi mi chiedono se questi dettagli sono meglio della grande storia. Io rispondo che le due cose non sono in competizione, tutto questo materiale è importante se gestito in modo serio, ecco credo che la serietà sia l’unico criterio di riferimento.
Lei parla anche di Oscar Wilde, di Truman Capote, del quale dà una valutazione non proprio positiva. Più in generale, è contro il nichilismo…
Personalmente non uso la parola nichilismo, alla quale preferisco il termine banalità. Sarà perché sto entrando nella fase della mezza età. Quello che mi dà fastidio di Tarantino è che una persona di grande talento come lui, un talento eccezionale davvero, dotato di stile e di acume, non riesca a trasmettere nessun messaggio con i suoi film. Quelle pellicole si vantano di essere di un certo livello, ma credo che nella cultura popolare ci sia una tendenza verso la banalizzazione che ritengo pericolosa, per questo quando parlo di Truman Capote o di Oscar Wilde, affermo che si sono buttati via nonostante si trattasse anche nel loro caso di talenti eccelsi. Si sono dedicati a cose banali, o a persone banali nel caso di Oscar Wilde. Voglio dire che su questa terra siamo di passaggio e quindi ci vuole un minimo di serietà e questo non significa affatto che mi manca il senso dell’umorismo. Sono stanco di sentir parlare di post modernismo, di dover continuare a scavare nelle rovine dell’occidente. Dovremmo trarre beneficio dall’arte e non condivido quelli che prendono sempre tutto troppo alla leggera, come fosse un gioco.
Parliamo di un autore tra i più grandi, Philip Roth. Anche su lui è piuttosto netto: crea una cesura dopo il ’96, ’97, dopo Pastorale americana, e sostiene che dopo quel periodo Roth diventa elegiaco, triste…
Credo che Philip Roth sia il più grande romanziere americano del dopo guerra, non c’è dubbio e lo ripeto anche nel mio saggio, ma questo non significa che non posso criticarlo e ai miei occhi le sue ultime opere sembrano dei fallimenti, o comunque dei romanzi che non sono alla sua altezza. Ora che ha una certa età vorrei che si comportasse come un moderno Re Lear, dovrebbe riflettere sulle cose, forse con più generosità di quanta non ne metta nei suoi ultimi scritti che secondo la mia opinione sono pieni di risentimento. E’ arrabbiato, non gli piace il fatto che sta invecchiando e allora scrive questo genere di libri. Mi fa venire in mente mio padre quando stava per compiere 80 anni che passava il tempo con i suoi amici dicendo di quanto le cose prima fossero migliori, mentre ora fanno schifo. Se mio padre si comporta così va bene, non è certo uno scrittore di fama mondiale, ma da Philip Roth, che recentemente è diventato molto nostalgico, mi aspetto qualcosa di più, di migliore. Vorrei che scrivesse qualcosa di importante sulla vita piuttosto che dilungarsi su come vivere sia meno divertente quando non fai sesso troppo spesso, perché credo che in un certo senso questo sia il punto di tutta la sua situazione.
Parliamo della televisione. Lei ha detto una cosa molto forte, cioè ha detto che negli autori televisivi di film come Six Feet Under ci sono i Dickens contemporanei.
In qualità di classicista guardo al tempo in periodi da 1000 anni piuttosto che in periodi da 50. Alcuni miei colleghi pensano che la letteratura sia finita e che la televisione abbia segnato la fine della civiltà, ma si diceva la stessa cosa quando sono stati inventati i libri, prima c’era la poesia orale e tutti credevano che i libri vi avrebbero messo fine. Bisogna guardare in prospettiva e secondo me negli Stati Uniti stiamo vivendo un momento di produzione letteraria molto prolifico, anche se questa produzione è destinata alla televisione che è il mezzo preferito di questi tempi. Il romanzo è una forma del XIX secolo e sta tramontando in favore della televisione. La tv assomiglia molto a Dickens, le storie vengono raccontate in sequenza con cadenza settimanale, i personaggi sono numerosi e complessi, i temi sono altrettanto complessi. Quindi perché non analizzare la televisione, si tratta comunque di un testo e io non provo nessuna fora di snobismo nei confronti della televisione perché credo in una letteratura più alta. Se un testo è interessante allora sono pronto a trattarlo. Credo che ci troviamo in un periodo straordinario: i Soprano, Six Feet Under. C’è anche un altro telefilm, non so se lo avete in Italia, che si chiama Battlestar Galactica, un telefilm di fantascienza che è davvero profondo. Credo che quelli come me, i critici, anche se abbiamo una formazione classica dovremmo guardare lì dove c’è cultura, è questo il nostro lavoro e al momento la cultura passa dalla tv. Tuttavia bisogna ricordare di mantenere alti gli standard.
Mi dice il suo regista e scrittore preferiti?
Mi piacciono i film di Hollywood vecchio stile, tipo Howard Hawks. Il mio film preferito invece è Ladri di Biciclette. Tra i romanzi preferisco quelli che parlano di culture che scompaiono e quindi apprezzo molto Thomas Mann, Tomasi di Lampedusa, sono un decadente. Quando sei un classicista sei necessariamente anche decadente perché vedi che tutto ha una fine e o lo accetti oppure lo rifiuti. Tra gli autori contemporanei preferisco Roth e Saramago. Non mi interessano molto i nuovi scrittori americani. Non trovo molto apprezzabili questo realismo magico e la scuola che ne scaturisce, ma ce ne sono alcuni come Le correzioni di Jonathan Franzen che mi piacciono, o ancora le Fantastiche avventure di Kavalier e Clay di Michael Chabon. Quindi ci sono delle buone cose, ma la disillusione di un giovane trentenne che vive a Brooklyn per me non è di nessun interesse, anzi vorrei prenderli a schiaffi e dire loro di comportarsi da adulti. Mio padre a 30 anni aveva già 5 figli.
Sono un fan di Woody Allen, ma di Allen potrei dire le stesse cose che ho detto di Roth, perché credo che il problema di fondo sia lo stesso. Non riesce ad accettare la dipartita del suo lato più libidinoso e dopo un po’ diventa alquanto grottesco. A parte Woddy Allen, amo molto anche Peter Greenaway, che ha presentato qualcosa alla Biennale di Venezia e che ritengo sia un grande regista, uno dei più interessanti tra i contemporanei. Guarderei tutto quello che fa. Ci sono delle persone che mi piacciono, vede. Credo anche Sofia Coppola sia interessante, non credo che sia una grande regista, ma se si occupa del progetto giusto può essere credibile. Mi piace anche Almodovar. potrei parlare di film per ore. Ci sono molte cose ben fatte.
Cosa pensa della funzione del critico?
I miei modelli sono critici americani degli anni Cinquanta e Sessanta, ad esempio Pauline Kael che scriveva per il New Yorker, una grande critica cinematografica che ha inventato questo modo di raccontare i film in modo molto colloquiale, anche quando si trattava di argomenti molto profondi. Anche a me piace usare la seconda persona singolare, tu, tu tu, come se stessi parlando a qualcuno. Un altro mio modello è Arthur Danto, ci sono delle opere che ho letto quando ero al liceo che mi hanno influenzato molto.
Credo che la critica sia un’opera pubblica, è per questo che non amo i blogger che sputano sentenze dal loro salotto. L’idea che l’arte sia per la gente viene dai greci che vedevano il critico come la persona che doveva aiutare a distinguere tra quello che era utile e quello che non lo era. Io ci credo molto e credo anche che ci troviamo in un momento di crisi e la ragione va cercata nella scomparsa della cultura dei giornali, che non so qui, ma in America stanno affrontando una crisi terribile. Continuiamo a perdere testate giornalistiche e questo rappresenta forse più una crisi per la democrazia che per la critica. Dall’altra parte c’è Internet, che è un gran mucchio di voci che dialogano e non sono convinto che questi blog letterari siano un valido sostituo della critica che generalmente viene pubblicata su giornali e riviste. Oltre a questo, oltre alla questione dei media, credo anche che abbiamo un attegiamento anti critico e questo lo spiego nell’introduzione al mio libro. Tutti dicono: “chi sei tu per dare dei giudizi?” “Perché sei così critico?” Credo che siamo in un’epoca di forte sentimentalismo che accetta tutto, non ha bisogno di critiche e sobilla i sentimenti più bassi. La critica invece sta dall’altra parte, ti dice che devi usare il cervello e il cuore. Credo quindi che siamo in un momento culturale anti critico e spero che passi presto cosicché io possa ancora fare il mio lavoro.