Il passo della dea

Last Updated on 19 Dicembre 2005 by CB

Bianca Garavelli è l’autrice del romanzo-thriller dal titolo Il passo della dea edito da Passigli. E’ il suo quinto libro di narrativa e si ricollega al precedente lavoro, il romanzo per ragazzi, Il mistero di Gatta Bianca. Sono entrambi dei polizieschi che tuttavia rompono il confine del genere. Hanno gli stessi personaggi ma questa volta la storia è ambientata al Teatro alla Scala, alla fine della stagione del 2001, cioè alla vigilia della chiusura per restauri del teatro.

C’è sempre una struttura di tensione nei lavori narrativi della Garavelli: c’è sempre qualcosa da scoprire, un mistero da svelare in tutte le persone. Un libro che ha un ritmo incalzante con dei personaggi con risvolti buffi. Ma c’è anche il senso dell’inquietudine che è stata propria del passaggio dal vecchio al nuovo millennio, come vi è pure la scoperta di un complotto ai danni dell’umanità, sventato senza tanto clamore e appena in tempo.

Intervista di Flaviano Masella

Ma allora non è vero che è Torino la ‘città magica’ italiana per eccellenza, in realtà è a Milano che si nascondono forze oscure?
Ebbene sì, Milano ha portato via questo primato a Torino, vendicandosi dello scippo del titolo di capitale del libro!

A parte gli scherzi, ho sempre percepito atmosfere un po’ inquietanti nella Milano soprattutto notturna, anche adesso che la sua proverbiale nebbia è molto diminuita, anzi quasi sparita. Ma Milano è proprio in mezzo a una pianura un po’ innaturale, troppo piatta, un po’ sorniona e solo apparentemente addormentata. Dicono che secoli fa era una grande palude, il Lago Gerundo, in cui accadevano fatti un po’ strani, soprannaturali, e c’erano isole che si muovevano di moto proprio. Anche se si è travestita da capitale del lavoro, dell’efficienza e della moda, Milano non ha perso questo fascino remoto e per lo più invisibile. Solo alcuni, più sensibili, più malinconici, più propensi di altri a osservare oltre l’apparenza, riescono a sentirlo. E’ soprattutto un legame con l’acqua a farne un posto speciale: nel Medioevo era una città d’acqua, piena di canali che l’abbellivano, la rendevano luminosa e verdeggiante. Ne ha parlato Bonvesin da la Riva nel suo Le meraviglie di Milano. C’era persino l’aria salubre, indicata per chi era debole di polmoni! Adesso purtroppo le sue acque sono state nascoste sotto il cemento, pochi navigli sono rimasti, la darsena è minacciata dalla costruzione di un mega parcheggio, Milano rischia di perdere del tutto il contatto con la sua energia più autentica e pura.

E il Teatro alla Scala è proprio questo posto misterioso e imprevedibile?
Anche su questo argomento ho fatto una scoperta interessante, ma solo dopo aver pubblicato il libro. Prima avevo scelto il Teatro alla Scala come luogo degli eventi della mia storia per una decisione istintiva, un po’ perché avvertivo che i Milanesi vivevano con molta inquietudine la chiusura del loro teatro. Come se avessero paura di perderlo per sempre. E un po’ perché ho sempre sentito chiaramente che la Scala è una specie di tempio laico per Milano, di luogo simbolo della città, il suo ombelico e anche una sorta di baluardo di difesa contro i mali, le difficoltà della vita economica e civile, sostenuto dalla bellezza, dall’arte, che vi hanno sempre regnato. Poi ho saputo che, come altri siti di Milano, l’area del Teatro alla Scala era un recinto sacro di origine antichissima, celtica, rispettato anche dai Romani, in cui durante gli scavi per le fondamenta l’architetto Piermarini trovò delle urne cinerarie, probabilmente di antichi druidi sepolti in quel luogo santo. Che si chiamava mitta-lanno, un nome che forse ha dato origine a quello della stessa Milano. Un luogo considerato sacro da più religioni, un po’ come l’area in cui sorge adesso la Basilica di San Lorenzo, che era consacrato alla dea Retia, la divinità, guarda caso, delle acque che scorrono.

Come mai secondo lei il mondo della danza e quello della lirica sono stati spesso al centro di thriller di successo?
Secondo me perché la scena, il palcoscenico, hanno un’energia che a poco a poco, se non si riesce a controllarla, trasforma la realtà. O meglio, ne mostra i lati inquietanti, i lati d’ombra. Non a caso a teatro appena inizia la rappresentazione le luci si spengono, e il buio accende altre luci nascoste, mostra nuove angolazioni della realtà. Lo si può percepire facilmente, se si ama questo genere di cose, appena prima dell’inizio dello spettacolo: si diffonde un’atmosfera frizzante, elettrizzante, che è quella che permette davvero di godere della performance, e che è persino meglio dello spettacolo in sé. I teatri stessi, poi, sono edifici adattissimi all’ambientazione di storie di tensione: pieni di nascondigli, di tesori, a volte di vere e proprie città segrete. Basti pensare al celebre, affascinante, Fantasma del palcoscenico, ormai oggetto di molti rifacimenti. O alla versione horror della lirica interpretata da Dario Argento in Opera, uno dei suoi film più riusciti grazie al tema che tratta.

Nel suo romanzo la danza assume un valore magico, come se avesse la capacità di combattere le forze del male. E’ d’accordo?
Sì, la danza ha la capacità di combattere il male. Anche oggi, anche nelle più comuni e anonime palestre conserva questo antico potere. Anzi ancestrale, nato con i riti religiosi più antichi. E non è solo appannaggio delle religioni più remote, per esempio come veicolo alla trance sciamanica. Lo vediamo anche nella religione ebraica, con la danza sacra di re David dietro all’arca dell’alleanza, rappresentata anche da Dante nel suo Purgatorio. Quindi è ancora una forma di preghiera in una religione vicinissima al cristianesimo. Oggi ne è rimasta qualche traccia nel canto corale sacro, che con la danza condivide la musica. Ma, come dicevo, basta muovere il corpo a ritmo di musica, abbandonare le difese razionali, riscoprire inconsciamente che la musica stessa obbedisce a ritmi, a simmetrie che non percepiamo normalmente ma che si impongono ai nostri centri percettivi quando danziamo, per provare un immediato senso di benessere. La danza riconduce sulla via di un’armonia fra umanità e universo, fra razionalità limitata ed energie cosmiche infinite.

Il gatto del suo romanzo, Ninja, è un protagonista a tutti gli effetti, non ha nulla di meno degli altri personaggi. Anzi, è lui a un certo punto a indicare la direzione da prendere per risolvere il giallo. Immagino che la scelta del gatto non sia casuale?
Devo ammettere che Ninja è il personaggio più autobiografico del libro, anzi forse l’unico autobiografico. Mi sono ispirata al mio gatto Rambo, che è una vera persona di famiglia. Nella mia vita gli animali in genere e i gatti in particolare hanno sempre avuto un posto speciale. Sono come dei messaggeri, portano notizie da un mondo semplice, primitivo ma non meno importante del nostro, che è complicato spesso inutilmente. Noi siamo un po’ come gli animali, in profondità. Ognuno di noi conserva una parte animale dentro di sé, potrebbe persino trasformarsi in un ‘animale di metamorfosi’ tanto a volte somiglia a un certo quadrupede, o volatile, o insetto. Gli animali sono il nostro legame con la natura, con le forze primordiali della vita. I gatti in particolare sono dotati di una grazia, di una bellezza, di una sensibilità discreta che di rado è invadente: possono essere i compagni di vita ideali. Quando vedo il mio gatto non mi stanco mai di ammirare la sua bellezza ieratica, misteriosa, che viene da lontano, e che fa di lui una piccola divinità che si degna di farsi coccolare e proteggere da me, nella mia casa. A volte penso che sia stato lui a scegliermi, ad adottarmi.

Il passo della dea è un romanzo che rimanda all’immaginario dei feuilleton dell’Ottocento, potrebbe essere definito come una storia dei ‘misteri di Milano’?
Mi piacerebbe moltissimo! In parte è già stato definito così, da Alessandro Zaccuri nella quarta di copertina, per la quale non smetterò mai di ringraziarlo. In effetti Zaccuri parla di una ‘Milano, città dei misteri’ che si delinea nel mio libro, perché ne esalto l’aspetto leggendario, imprevedibile, noto a pochi. Ammiro molto, in particolare, un autore di romanzi d’appendice, il francese Eugene Sue, di cui ho letto da ragazzina I misteri del popolo. Dev’essere dunque vero che le letture più sono precoci più ci segnano per tutta la vita. Quello era un romanzo multiplo, formato da molti libri, la storia infinita di una famiglia, i Lebren, che dall’antico mondo celtico arrivava alla Francia di Napoleone. A me piacevano le parti più antiche, in cui era descritta l’invasione romana della Gallia, poi il Medioevo, la crociata contro gli Albigesi. E’ un romanzo incredibilmente pieno di violenza. Molto più de I misteri di Parigi. Forse mi ha lasciato il gusto per le ambientazioni variegate, spregiudicate, che non si lasciano chiudere nei confini di spazio e tempo.

Lei è un critico letterario, soprattutto sul fronte della poesia, e ha anche pubblicato un libro di versi. Come mai la poesia però non vende nelle librerie?
Probailmente, perché i lettori hanno un bisogno insopprimibile di leggere storie. La poesia è sintesi pura, non racconta ma stimola, induce dubbi, pensieri inquietanti. I racconti e romanzi invece soddisfano il bisogno di pensare a un altrove, senza preoccuparsi del qui e ora. In particolare nel nostro tempo di crisi, di tensione e inquietudine, in cui mi sembra che trionfino thriller che solo in apparenza trattano di argomenti attuali. In realtà, li sfiorano in modo molto libero e senza sottolinearne gli aspetti più angosciosi. Non vorrei che stessimo vivendo di nuovo quella fuga tenace dalla realtà che aveva preceduto il secondo devastante conflitto mondiale. Ma ultimamente si sta risvegliando anche un certo interesse per la poesia e per i poeti. Forse non sarà mai più come in passato, quando il poeta era una figura carismatica che rappresentava le tensioni spirituali di una società, di una nazione. Oggi tutt’al più potrà esserne la coscienza, la parte riflessiva. Forse questo interesse per la poesia viene da una rinata ricerca di bellezza, che la cultura più diffusa è riuscita a suscitare. E’ ancora un movimento sotterraneo, però.

Lei è una apprezzata dantista: ha curato uno dei commenti danteschi che attualmente sono adottati nelle scuole italiane, pubblicato per le edizioni Bompiani con la supervisione di Maria Corti. E alla fine ha ceduto alla tentazione di dedicare un romanzo al sommo poeta. Di cosa parlerà questo suo nuovo romanzo?
Lo sto scrivendo e ammetto che ho un po’ paura a parlarne. Sto cercando di creare un personaggio Dante che sia credibile e incuta rispetto. Che è quello che provo per lui, molto intensamente. Trovo che sia una figura nobile, forte, e anche misteriosa. E’ stato profondamente segnato dal destino. Ha saputo scrivere in condizioni di grande difficoltà materiale e amarezza spirituale. Ha creato uno dei capolavori più onnipresenti nella storia della letteratura di tutti i tempi e, per noi che parliamo la lingua italiana, nella nostra vita quotidiana. Nel mio romanzo vorrei rivelare, per quanto mi sarà possibile, la sua umanità, la sua anima, le sue passioni, e un suo lato d’ombra, naturalmente. Che lo lega a una setta segreta che agisce nella Francia del 1300. Insomma, sto scrivendo Il codice Dante, ma rimanga tra noi…

Dante attualmente sembra essere diventato anche un personaggio di moda. Secondo lei è solo perché in questo periodo vanno molto certe figure misteriose legate agli aspetti enigmatici di un passato che perdura nel presente?
Come dicevo anche al Cairo, alla settimana della lingua italiana nel mondo del 2005, ben venga questa moda che ci fa riscoprire questo grande protagonista della letteratura! Indubbiamente, ritengo anch’io che venga da questo interesse un po’ disimpegnato, un po’ superficiale, per un passato rivisitato in modo romanzesco. Tuttavia potrebbe anche nascere da una riscoperta della figura di Dante, dei valori estetici della sua straordinaria poesia, dell’universalità e attualità del suo messaggio. Le letture di Benigni ne sono un po’ l’esempio, come anche il successo di Vittorio Sermonti. Forse ci siamo accorti che Dante già sette secoli fa parlava di devolution e di coesione nazionale. Per difendere quest’ultima contro le forze centripete che distruggono l’armonia di una nazione costruita con grandi fatica e lacrime e sangue. E parlava già di pace universale, e del nostro destino che si distingue da tutti gli altri elementi dell’universo. Ce l’ha descritto, il nostro destino di anime disincarnate. Ci ha dato una speranza di immortalità. Ne abbiamo ancora un gran bisogno.

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