Last Updated on 2 Marzo 2015 by CB
Cindy Sherman ha fatto dell’autoritratto, vissuto come mutevole soggetto di fiction, la cifra del suo trentennale percorso artistico, e di un business senza pari. (Cindy Sherman, Sammlung Goetz, Monaco, in mostra fino al 18 luglio 2015). Ecco come la fotografa racconta il percorso creativo nella creazione dei personaggi, e poi un commento critico di Achille Bonito Oliva.
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«Cerco quella sensazione di blocco alla gola che forse viene dalla disperazione e dal pianto: esprimere emozioni intangibili. Una fotografia dovrebbe andare oltre se stessa, l’immagine oltre il medium, per diventare veramente presente.
Queste sono immagini di emozioni personificate, completamente fatte della loro presenza, non della mia. Il tema dell’identità della persona non è più interessante della possibile carica simbolica di qualunque altro dettaglio.
Quando preparo un personaggio, devo considerare contro che cosa sto lavorando; devo pensare che la gente vorrà guardare sotto il trucco e le parrucche, in cerca di quel comune denominatore che è la riconoscibilità. Cerco di portare le persone a riconoscere qualcosa di se stessi, non di me.
Ho una enorme paura di essere fraintesa, temo che la gente creda che le mie fotografie parlino di me, e che io sia vanitosa e narcisista. E a volte mi chiedo come sia possibile che io inganni così tanta gente. Faccio una delle cose più stupide al mondo, che quasi non posso neppure spiegare, mi travesto come una bambina e poso di fronte alla macchina cercando di fare delle immagini meravigliose. E sembra che questo alla gente piaccia (ma allora il mio istinto mi dice che quello che faccio non deve essere poi così provocatorio).
Credere nella propria arte diventa sempre più difficile se la risposta del pubblico si fa sempre più affettuosa». (Cindy Sherman, 1982, in Roberta Valtorta, Il pensiero dei fotografi, Bruno Mondadori)
«Il corpo di Cindy Sherman qui viene esibito come un ready madecinetico, spiazzato dalla sua dimensione quotidiana e spostato in quella sorprendente dello spettacolo, corpo-oggetto e bersaglio per la contemplazione di un vasto pubblico.
Anche la dimensione delle opere ha un suo ruolo, evita lo standard del bel formato e gioca su una monumentalità capace di occupare intere pareti del museo.
La diversa misura delle opere sviluppa un dinamismo iconografico che accentua l’edonismo creativo dell’artista e il bisogno precocemente postmoderno di rappresentare l’identità come produzione di disidentico. L’artista infatti compare e scompare in continui travestimenti di se stessa da Cover girls (Vogue) (1978), ammiccante alla copertina della rivista, fino alle numerose Untitleddegli anni Ottanta, Novanta e Duemila. Qui l’autoritratto non vuol confermare la perenne fissità dell’Io, ma piuttosto le mutazioni, le fantasie, le metamorfosi estetiche e somatiche che sembrano spostare la vita verso un film dell’horror. L’artista si riprende in molteplici atteggiamenti, tesi a rappresentare pulsioni immaginarie e la sua reale condizione di donna. Infatti il femminismo americano ha guardato con attenzione all’opera della Sherman. (…)
Cindy Sherman con i suoi continui travestimenti rappresenta felicemente la tentazione del soggetto di praticare la vanità come prêt-à-porter del narcisismo. Una veloce passerella dell’immagine, sotto lo sguardo stupefatto delle spettatore in ammirazione per la volubilità dell’artista chiaramente indecisa a tutto. L’indecisione della Sherman è frutto di un ribaltamento ideologico che vuole capovolgere il trend di una società dei consumi, quella americana, pronta a celebrare il prodotto e non il suo produttore».
(Achille Bonito Oliva, Cindy Sherman – Una, nessuna e centomila la madrina di tutti i selfie – La Repubblica, 31 agosto 2014 – a proposito della mostra Untitled Horrors – Kunsthaus Zürich)