Last Updated on 1 Settembre 2021 by CB

Colette, donna dalla natura libertaria, e creativa; nella vita prima che nell’arte. Anche per questo Julia Kristeva, linguista, scrittrice, psicoanalista, semiologa allieva di Roland Barthes, le ha dedicato l’ultimo parte della sua trilogia sul ‘genio femminile’, pubblicata da Donzelli. Un’occasione per rileggere con nuovi stimoli la sua ricca scrittura ‘metamorfica’, spesso messa in ombra dalle bizzarrie autobiografiche. Autrice di culto del primo Novecento francese, Colette scrisse più di cinquanta romanzi. Tra i molti titoli ricordiamo la serie dedicata a Claudine, poi La vagabonde, che andò vicinissimo al prestigioso premio Goncourt; Sido, Il grano in erba, Gigi – anche film di successo con Audrey Hepburn – e Chéri.
C’è qualcosa che accomuna le protagoniste della sua trilogia sul ‘genio femminile’, Hanna Arendt, Melanie Klein e Colette?
Quello che hanno in comune è che sono tre donne – Hanna Arendt, Melanie Klein e Colette – che hanno segnato il Ventesimo secolo, per quello che chiamo il loro ‘genio’, cioè una singolarità stravagante che ha permesso loro di portare delle visioni diverse, delle pratiche diverse, dei progetti diversi, in tre campi che mi sembrano essenziali nel Ventesimo secolo: la filosofia politica, per Hanna Arendt, la psicanalisi per Melanie Klein, e per Colette la scrittura.
Simone de Beauvoir ha scritto che donna non si nasce: si diventa. E’ cambiata, e cos’è diventata, la sua visione dello specifico femminile dopo questo suo lavoro?
Ho dedicato la trilogia a Simone de Beauvoir, per due ragioni. Innanzitutto perché ammiro molto il suo lavoro, e poi perché non sono affatto d’accordo con lei. L’ammiro perché la frase che ha citato – Donna non si nasce: si diventa – mette l’accento sulla costrizione sociale che marginalizza le donne come una sorta di ‘secondo sesso’, come lei dice: cioè come quello che viene dopo l’uomo, come una coscienza sempre trascesa dalla coscienza dell’uomo. Dunque le donne sono nella fatticità , dice lei, e si batte violentemente contro questa visione delle cose, e la sua battaglia consiste nel considerare e a far ammettere che c’è un’uguaglianza, e una fraternità tra uomini e donne. E’ il secondo grande periodo della lotta delle donne per l’emancipazione. Dopo le suffragette, dunque, abbiamo Simone de Beauvoir.
La mia generazione viene per terza. Noi abbiamo voluto mostrare, in sede di psicoanalisi, che se c’è fraternità a livello di diritto, cioè sul piano dell’uguaglianza, e direi sul piano dell’uguaglianza del lavoro… ebbene, può esserci, deve esserci ed è necessario che ci sia una differenza nella quale la creatività e la specificità delle donne si mostrano: ed è là che dobbiamo chiederci in che modo ciascuna donna, e non ‘tutte’ le donne, può contribuire alla cultura umana. Da qui è nata l’iperbole un po’ provocatoria del ‘genio’ femminile, che di fatto è un appello perché ciascuna donna si cimenti in prima persona, e si finisca con il femminismo ‘di massa’ per cercare di far sorgere la creatività, il genio di ciascuna.
In Italia è appena uscito l’ultimo dei tre volumi, dedicato a Colette. Una donna per la quale scrivere – lei dice – «non è tanto una fantasia personale, ma un’immersione esistenziale nella carne del mondo». Intende dire che la sua creazione nasce più da un incontro con l’esterno che dalla necessità di dare forma a una realtà interiore?
Colette è stata una donna straordinaria. Per niente femminista, si burlava delle suffragette, ma è stata celebrata dopo la sua morte dalle femministe americane, per cominciare, che hanno scoperto in lei una donna ribelle, con una sessualità stravagante: si definiva un’ermafrodita mentale.
Ma quello che mi ha affascinato di lei è che ha sempre rifiutato di essere considerata una ‘scrittrice’, sebbene sia stata, come si sa, celebrata al vertice del pantheon della letteratura francese, e sia stata presidente del Prix Goncourt. Ebbene, lei diceva: «Come, la più grande scrittrice, io? Ma no». E quello che lei rivendicava era di avere scritto «l’alfabeto del mondo». E questo si collega alla sua domanda, perché per lei il linguaggio scritto non è un esercizio retorico; è un’immersione nella carne del mondo, come dico in effetti nel mio libro. Il che significa che le parole, le cose, le sensazioni, sono un’unità. Quando si legge Colette, si ‘sentono’ i gatti, i cani, le donne, gli uomini, i profumi, i fiori. E si è immersi nel mondo. Si è trasportati nella sua propria esperienza, che è stata anche molto dolorosa – è una donna che ha vissuto molti tradimenti, un film recente della televisione francese ha mostrato essenzialmente la sua parte malinconica. E tuttavia non è stata una malinconica, ma ha cantato l’arte di vivere. E io penso che il ‘femminile’ può essere una specie di ‘gioco permanente’, un’arte di vivere. E’ una cultura francese, beninteso, è giovialità, ma è specificamente ‘colettiano’.
Colette irrompe nella letteratura francese con la sua sensualità, nell’arte come nella vita, polifonica, provocatoria, della quale però non fa una militanza. Cosa può ancora trasmettere il suo stile libertario e senza etichette ‘politicamente corrette’ al lettore, alla lettrice di oggi?
Credo che il femminismo, che oggi attraversa una crisi, sia indebolito da un messaggio politico spesso molto schematico, e che non abbia tenuto conto della ‘singolarità’ delle donne, di questa specificità – che è la nostra – che fa sì che la vita, l’oggetto d’amore, il tempo, il pensiero, il corpo, la scrittura, siano un’unità costante, una specie di osmosi; è quello che chiamo «la carne del mondo». Ebbene, Colette con quella sua scrittura, con i suoi messaggi molto stravaganti, molto singolari, molto sensuali, molto ribelli, si distanzia da questo schematismo, e perciò è una sorta di appello alla libertà. Poi sono molto sensibile al contesto europeo perché abbiamo bisogno di fare intendere che il messaggio femminile non è morto, ma abbiamo bisogno di donargli una nostra risonanza, ed è questa singolarità che tutte noi sentiamo necessario affermare.
Colette ammira Proust, scrive che è «delizioso» che ci «si immerge». C’è qualcosa che accomuna i due scrittori?
L’ammirazione di Colette per Proust ci ha messo del tempo a manifestarsi. Nei suoi primi libri era un po’ scettica, un po’ ironica, e forse anche con dei piccoli accenti di antisemitismo che suo marito ha corretto.
Loro hanno due cose in comune. Da una parte la presenza della memoria infantile; sappiamo che Proust e la Recherche, attraverso la madeleine, rievoca questi ‘tempi perduti’ dell’infanzia. Anche Colette. Ma lei dice che non ricerca il suo tempo; perché è sempre lì. Lei non ha trasgredito, non è stata blasfema, non ha fatto scandalo per trovare questa infanzia. Per lei l’infanzia è sempre presente, nella purezza. Del testo magnifico di Proust che è Sodoma e Gomorra lei ha scritto la versione femminile, ed è Il puro e l’impuro. Colette pensa che l’omosessualità femminile abbia una purezza che richiama la relazione madre-figlia.
E poi, la seconda particolarità che avvicina i due autori è che attraverso questa esperienza della bisessualità arrivano a rendere il linguaggio vicino alla sensualità. Quella di Proust e di Colette sono lingue non astratte, ma imbevute di sensazioni. Il mio libro su Proust si chiama Il tempo sensibile, e Colette è «la carne del mondo», sempre alla ricerca di una sensualità. In maniera molto diversa, ma che è anche convergente. E’ una stessa esperienza, forse specifica in modo diverso per i due sessi.
Lei si sofferma molto sul rapporto della scrittrice con la madre, Sido. In che modo la natura di questo rapporto si riverbera poi sull’opera di Colette?
La relazione tra Colette e Sido è al tempo stesso centrale e complicata. I primi testi di Colette, quelli con Claudine, sono del tutti privi della madre. Claudine è orfana di madre. E molte dei biografi sono restii a mostrare che Colette aveva dei rapporti molto tesi con sua madre, una passione molto complicata. Nella sua esperienza personale, ha avuto bisogno di due cose: la sua maternità, il fatto di avere lei stessa dei figli; e la sua esperienza di una sorta di perversione – e uso questa parola senza connotazioni negative, semplicemente per dire che sono esperienze che non sono ‘classiche’, non sono normative.
Lei ha avuto tutti i piaceri del mondo, e ha potuto riavvicinarsi a sua madre, ha potuto mettersi al suo posto e creare il personaggio di Sido, nel quale non sappiamo troppo bene se si tratta di Sido o di Colette. E abbiamo, a partire da qui, una sorta di ‘dea-madre’ della letteratura, che più che una donna è una sorta di inno, di cantico dei cantici del cosmo, una sorta di lettera, anche. Questa Sido è forse uno dei migliori personaggi di Colette.
Lei ha incontrato due personalità che, seppure in modi diversi, nel linguaggio hanno hanno visto l’espressione, incarnazione del desiderio: Roland Barthes e Jacques Lacan. Che ricordo conserva di loro?
Difficile dirlo rapidamente. Ma Roland Barthes forse è il solo professore che ho conosciuto che non voleva che i suoi studenti ripetessero quello che lui diceva, e che apprezzava la creatività dei suoi studenti. E’ stato molto generoso con me, mi ha sostenuto molto, diceva anche che utilizzava il mio valore di giovane studiosa; ed è vero che dei ‘concetti’, se si può dire, come l’intertestualità o il mio interesse per l’esperienza amorosa vengono assimilati alla sua maniera. E quanto a Lacan, quello che ricordo di lui è forse questa maniera ‘barocca’, se non surrealista, di concepire la cura analitica; che è a volte contestabile, a volte leggera, ma che ha sollevato un vento di libertà, e di ribellione direi, sulla psicoanalisi.