Mo Yan è Nobel

Last Updated on 11 Ottobre 2012 by CB

Mo Yan è il vincitore del Nobel per la Letteratura 2012.  “Con il suo realismo allucinatorio”, si legge nella motivazione della giuria della Reale Accademia di Svezia, “forgia racconti popolari, di storia e contemporanei”.

Proponiamo un’ intervista realizzata a Percoto il 29 gennaio 2005, in occasione del Premio Nonino 2005. (Si ringrazia per la traduzione Maria Rita Masci)

‘Colui che non vuole parlare’. Un curioso pseudonimo per uno scrittore che riversa come un fiume in piena in migliaia di pagine i suoi racconti, capaci di presentare in mille sfaccettature un mondo variegato e denso di storie. Ma la scrittura di Mo Yan pare sempre sul limite dell’indicibile. Come in una frase chiave del suo Grande seno, larghi fianchi: «Le scene cui assistemmo quel giorno furono davvero troppe. Anche con una decina di occhi in più, non avremmo potuto vederle tutte. E se ci fossero cresciute altre dieci bocche non saremmo riusciti a raccontare ogni cosa».Lo guardi, provi ad osservare la sua espressione, e nell’intervista ti si presenta davanti una maschera impenetrabile. Al contrario sua figlia ventiduenne, al suo primo viaggio in Europa, non sa più come mostrare la sua emozione e la sua gioia, ad ogni novità che incontra. Per lui invece è come tenesse il suo mondo tutto dentro di sé, incapace di esprimersi se non attraverso la parola scritta. E invece, basta proporre per le riprese una passeggiata per la campagna intorno a Percoto, dove si trova per ricevere il Premio Internazionale Nonino 2005, e tutto cambia. Una casa con piccoli attrezzi agricoli sulle pareti, ci fermiamo e sembra di stare in un film, con i luoghi e il personaggio giusto, il contadino friulano doc che neppure un attento casting avrebbe potuto scegliere meglio. A contatto con la terra e il mondo contadino, anche il suo viso e i suoi gesti diventano molteplici, la maschera cade, ‘colui che non parla’ si scioglie. Si esprime nella sua curiosità, tocca ogni oggetto, la bilancia, i piccoli attrezzi agricoli, la volpe imbalsamata, la botte in cantina. E ne esce un’intervista non solo da leggere, ma anche da guardare.

L’intervista (di Luciano Minerva)

«Se fai qualcosa fallo bene. Concentrati e non pensare ad altro. I suoi attrezzi erano tenuti in modo impeccabile. L’erba che lui tagliava era pulita, senza fango». E’ un brano del racconto Il tornado, della raccolta L’uomo che allevava i gatti. Che rapporto c’è tra questa attenzione alla qualità del lavoro contadino di suo nonno e la sua scrittura, e secondo lei si può distinguere nello stile, nello sguardo una letteratura di origine contadina da una letteratura di origine urbana?
Questo racconto parte da un’esperienza personale, perché andavo spesso nei campi a lavorare con mio nonno. In quell’occasione si levò un vento così forte che rischiammo di perdere tutto il raccolto: era un fenomeno naturale che poteva influire seriamente sulla nostra stessa sopravvivenza. Questo mi insegnò a prestare una particolare attenzione a tutto ciò che si faceva, perché potevamo restare senza cibo e perdere tutto il frutto del nostro lavoro. Ed era anche una scuola di vita: episodi come questo mi hanno insegnato ad avere attenzione verso le cose. Quello che ho scritto nella mia produzione artistica parte sempre da cose che ho conosciuto direttamente: spesso rappresento persone che conosco, parenti, esperienze vissute. Negli anni Ottanta, quando ho cominciato a scrivere, il mio stile di scrittura era molto diverso da quello di altri scrittori. Facevo parte di un movimento di ‘ricerca delle radici’ ma era anche una scrittura d’avanguardia, di rottura con la tradizione. In questi vent’anni mi sono sempre mantenuto fedele a questa ricerca e quindi sento una distanza notevole fra la mia produzione e quella di uno scrittore urbano.

Daxiang e i suoi gatti condividevano la stessa natura, erano compenetrati, sembravano appartenere alla stessa categoria oscura ancora sconosciuta agli uomini e per questo da loro considerata un misterioso fenomeno spirituale (L’uomo che allevava i gatti) Quant’è importante per noi analizzare questa zona oscura e che cosa possiamo ancora imparare dagli animali?
Per me questo racconto, della fine degli anni Ottanta, è stato un’occasione per raccontare un fenomeno che si era diffuso nelle campagne: in quel periodo i contadini potevano smettere di coltivare la terra, darsi all’allevamento di animali e diventare allevatori professionisti. Scegliere un protagonista che allevava i gatti era un modo per fare satira sulla situazione sociale dell’epoca, perché ovviamente allevare i gatti non era un’attività remunerativa né poteva avere alcun senso. Man mano che scrivevo questo racconto prendevo una direzione diversa, perché mi rendevo conto di un rapporto complesso tra l’uomo e la natura, un rapporto misterioso perché legato alle mie reminiscenze infantili. Io vengo da una provincia che è Gaomi, nello Shandong, che è anche la mia patria letteraria: una terra molto povera, molto dura, ma anche ricca di animali di ogni generi, dai serpenti, alle volpi, e animali che nell’immaginario contadino avevano assunto un ruolo magico. Ad esempio c’era la volpe che si trasformava in spirito, ma poteva anche darsi che questo spirito si ritrasformasse in essere umano. C’è quindi una compenetrazione tra umano e animale. Quand’ero piccolo credevo che tutte queste storie fossero reali, che fossero davvero possibili, mentre col tempo, crescendo, ho scoperto che non erano vere, ma servivano come espediente della tradizione contadina per prendere in giro la società, era come una rivalsa contro un mondo di durezza. E’ chiaro che c’è un legame con il problema più vasto della sopravvivenza di alcune specie animali che nel frattempo sono andate scomparendo. Gli uomini hanno un limite nel comprendere la natura, mentre si sentono i padroni del mondo e intanto portano alla scomparsa di intere specie animali. Voglio sottolineare il fatto che non siamo i padroni del mondo, ma che dobbiamo tenere presenti e rispettare anche le altre realtà, quella delle piante e degli animali.

Lei descrive gli attuali villaggi di campagna come sporchi e puzzolenti da far allontanare il cielo, dove arrugginirebbero persino preziose spade fatte di diamante, e dice che ogni volta che torna alle sue origini e al suo villaggio non può fare a meno di provare un profondo sconvolgimento. In che cosa consiste questo sconvolgimento?
Il mio paese natale è la fonte d’ispirazione fondamentale della mia scrittura. Il paese che descrivo si basa però sulla mia memoria ed è un misto fra la realtà e la creazione della mia fantasia. Nella mia memoria il paese da cui provengo è un luogo ideale, molto bello, che oggi non c’è più; infatti ogni volta che ritorno tocco con mano i cambiamenti, che sono stati numerosissimi, e verifico in questa natura, in questa campagna, una trasformazione in peggio rispetto a quella della mia memoria. Anche se i contadini vivono meglio, trovo una serie di aspetti per i quali i villaggi e la campagna sono peggiorati. Intanto c’è una distruzione dell’ambiente: l’acqua che è diventata sporca perché è l’acqua di scolo, la terra che viene trattata con concimi chimici e quindi si impoverisce, gli animali sono diminuiti, poi ci sono le fabbriche che adesso vengono costruite in campagna, e vediamo in giro buste di plastica, immondizia lasciata in giro, c’è il cattivo odore che viene dalle fabbriche di concimi chimici. E’ questo il prezzo che si paga per lo sviluppo economico. Un altro aspetto è che il modo di pensare dei contadini e la loro moralità sono stati intaccati e sono mutati perché, soprattutto nelle giovani generazioni, prevale una ricerca di benessere, una ricerca di profitto e di arricchimento. E infine c’è un altro aspetto molto grave che continuo a sottolineare: la corruzione degli amministratori locali che approfittano del loro potere per mettere tasse e gabelle di vario genere. Questi sono i tre aspetti che sperimento ogni volta che torno in campagna e che mi sconvolgono.

Sono passati quasi vent’anni da quando ha scritto Il sorgo rosso, in cui diceva nelle primissime pagine: Questa danza eroica e tragica fa impallidire al confronto noi indegni discendenti, mi fa percepire chiaramente la regressione della specie che accompagna il progresso. Ritiene ancora che sia così, ha ancora questa visione del progresso e della regressione della specie?
Per spiegare questa posizione bisogna che parli di qual era la situazione storica e sociale di quando ho scritto Sorgo rosso. All’epoca era stata appena decretata, nel ‘79, la fine della Rivoluzione culturale. La Cina usciva da un periodo di oppressione politica e di negazione della libertà individuale, quindi ad esempio le condizioni di vita dei contadini, che sono i miei soggetti favoriti, era molto dura, non c’era libertà di parola e quindi addirittura per andare a comprare dei prodotti che servivano per la campagna bisognava chiedere il permesso per spostarsi da un villaggio all’altro. C’era una situazione di autocensura, di autocontrollo, in cui la gente si reprimeva da sola. Quando questa fase è terminata, c’è stata anche una liberazione del pensiero e nello scrivere un romanzo volevo mostrare qual era stata in precedenza la natura del popolo cinese, e dire che a confronto degli antenati, persone di polso, gente di coraggio, gente forte, oggi c’è stata una decadenza. Quindi l’idea era quella di dare una descrizione della società com’era, per cui la gente desiderasse tornare ad un certo tipo di natura coraggiosa e forte, e quindi liberare se stessi e rivitalizzare questo spirito nazionale. Sentivo necessario ricominciare a dire quello che si pensava e avere il coraggio delle proprie idee, cioè non vivere come bestie da soma, come eravamo stati ridotti.

Lei rappresenta uomo e donna come due mondi profondamente diversi, quasi separati da un muro. Tranne in pochi casi non c’è comprensione tra uomo e donna oppure il rapporto è ridotto alla relazione madre-figlio. Lei pensa sia possibile in futuro, in Cina, un dialogo tra uomo e donna?
Effettivamente nei miei romanzi il rapporto fra uomo e donna è come è stato descritto, e questo è legato alla mia esperienza in campagna, dove vigeva una morale estremamente conservatrice, quindi confuciana, molto dura. Lì, secondo questa morale, le donne non hanno diritto di parola e sono sostanzialmente uno strumento di lavoro. Attraverso questi personaggi così eroici, queste madri e donne che sfidano l’autorità pur di proteggere la vita o i figli, ho voluto offrire degli esempi in controtendenza, delle figure eroiche che cercavo di suggerire per controbattere questa arretratezza e disparità nella posizione della donna nella società dalla quale provenivo. Soprattutto era una società dove non c’era amore. I matrimoni erano combinati, e l’amore, se c’era, poteva venire dopo che una coppia era stata forzata a metter su famiglia. Oggi probabilmente tutto questo si sta trasformando visto che c’è una maggiore libertà di scelta tra uomini e donne, quindi ho un’idea positiva del futuro.

Lei ha scelto come pseudonimo Mo Yan, ovvero ‘colui che non vuole parlare’. Nei suoi romanzi si trovano molti personaggi muti e altri che preferiscono in molte situazioni non rispondere. Perché, in uno scrittore così fertile, questa scelta?
Nei miei testi ci sono spesso persone che in situazioni difficili non parlano, ci sono molti muti. Io stesso mi sono scelto come pseudonimo Mo Yan, che significa ‘colui che non vuole parlare’. Quando ho scritto questi libri non mi ero reso conto che c’erano tutte queste situazioni di rifiuto o impossibilità di parlare, ci penso adesso che lei me lo fa notare. Perché ci sono, mi chiedo? Penso che questo abbia un collegamento con l’epoca della Rivoluzione culturale, quando parlare era molto pericoloso e dire cose sbagliate poteva portare molte difficoltà e molti guai alla famiglia, per cui i miei genitori mi chiedevano di parlare poco, di non dire certe cose, di trattenermi. Penso che questa sia la realtà che sta dietro alla scelta di chiamarmi con questo nome.

Biografia

Mo Yan è lo pseudonimo letterario di Guan Moye. Nasce il 17 febbraio 1955 a Gaomi (provincia dello Shandong) da una famiglia di contadini. Mo Yan, che letteralmente significa “non voglio parlare”, rimanda al periodo in cui lo scrittore è cresciuto, uno dei più tormentati della Cina: la Rivoluzione Culturale, quando una solo parola ‘sbagliata’ poteva avere conseguenze catastrofiche sulla vita delle persone. Mo Yan è considerato il maggiore scrittore cinese contemporaneo e il fondatore del movimento letterario della “Ricerca delle radici”. In giovane età si arruola nelle forze armate, dove inizia a scrivere nel tempo libero, proseguendo gli studi universitari e lavorando al dipartimento affari culturali dell’Armata di liberazione. popolare”. Dieci anni fa la decisione di lasciare l’esercito e dedicarsi unicamente alla scrittura.

Tra i suoi romanzi più conosciuti, Sorgo Rosso (1986), racconto efferato dell’invasione giapponese degli anni ’30; l’omonimo film di Zhang Yimou, nominato all’Oscar come migliore film straniero, ha vinto l’Orso d’oro al festival del cinema di Berlino nel 1988. Il suo ultimo romanzo invece è Wa (La rana) che nel 2011 ha vinto l’ottava edizione del Premio per la letteratura Mao Dun. Dopo il Nobel per la Letteratura 2000 a Gao Xinjiang, naturalizzato francese, la cui opera Fugitives è bandita in Cina per i riferimenti a piazza Tian’anmen, e il Nobel per la Pace 2010 al dissidente Liu Xiaobo che mandò  Pechino su tutte le furie, per molti il riconoscimento a Mo Yan nasconde un intento riparatore.

E il successo di Mo Yan spacca il Web, diviso tra coloro che sostengono lo scrittore e quelli che lo accusano di aver comprato i giudici. Un’accusa cui Mo, tuttavia, non intende replicare. ‘Merito’ forse del suo stesso nome “Senza parole”, pseudonimo che lo scrittore scelse dopo aver scritto il suo primo racconto come promemoria: dato il linguaggio piuttosto schietto, che non veniva accolto né tollerato in tutta la Cina, scelse Mo Yan per ricordare, soprattutto a se stesso, di non parlare molto. Ma nonostante le ‘precauzioni’, Mo non è riuscito ad evitare le critiche. Durante la “Conferenza letteraria” di Hangzhou dello scorso 9 settembre aveva detto ai suoi lettori: “Non vi sono dubbi che il premio Nobel per la letteratura sia un’occasione prestigiosa ma, negli anni passati e tutt’oggi, molti validi scrittori, come ad esempio Kafka o Tolstoj, non vengono considerati e non vincono nessun premio. Così, tra coloro che hanno vinto il Nobel per la letteratura, ci sono opere che personalmente non apprezzo. Ecco perché non voglio parlare di questo argomento in quanto, parlarne, potrebbe esser motivo di attacco nei miei confronti e molti potrebbero criticarmi accusandomi di avere l’ ‘ansia da Nobel’ “.

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