Last Updated on 27 Gennaio 2004 by CB
Quando in Israele ci sono anche i più piccoli spiragli, le più piccole prospettive di pace, David Grossman è là, con la sua scrittura e con la sua persona, con un impegno che è insieme morale e politico, dove non ci sono confini tra l’uomo, lo scrittore, il cittadino impegnato. Così come non si possono individuare confini netti nella sua scrittura, tra la creazione delle sue storie e l’intervento su vari quotidiani in Israele e in Europa nei momenti più critici dello scontro tra Israele e Palestina.
La stessa capacità di immaginazione, di ricerca di un linguaggio capace di arrivare al cuore dei problemi e dei lettori, e che parte dall’esperienza comune, della vita di tutti i giorni, delle paure, delle angosce, della ricerca della felicità anche in singoli attimi. In Italia, quasi in contemporanea con il suo ultimo libro, Col corpo capisco, che contiene due romanzi brevi, è uscito l’estate scorsa La guerra che non si può vincere, una raccolta di articoli degli ultimi dieci anni sulla guerra tra israeliani e palestinesi. La nostra intervista a Mantova, durante il Festivaletteratura dello scorso settembre, si è svolta su quel confine davvero sottile tra la sua scrittura politica e quella letteraria.
L’intervista è di Luciano Minerva.
«Sento fisicamente nel corpo come l’angoscia e la disperazione facciano contrarre le dita tese della mano tese in un pugno», scrive nella sua introduzione a La guerra che non si può vincere. Il suo ultimo libro uscito in Italia si intitola Col corpo capisco. Qual è il processo che lei ha fatto nel passaggio dalla mente al corpo?
Credo che tutti noi sentiamo e ci esprimiamo anche attraverso il corpo. Sarebbe un mondo davvero povero se potessimo esprimerci solo attraverso il linguaggio e con idee e nozioni astratte ed è naturale che abbiamo paura di sentire col corpo e siamo appassionati nel sentire col corpo, siamo felici di sentire, siamo disperati, sentiamo la contrazione dell’anima e dell’organismo quando c’è una minaccia e da questo nascono le espressioni corporee. Quando ad esempio provo a pensare a come in questa realtà funzionano gli israeliani, a come funzionano i palestinesi, cerco di sviluppare il maggior numero possibile di punti di vista, compreso questo: cosa succede quando abbiamo paura? Cosa senti, quali sono le tue reazioni fisiche? Perché questo incide su tutto, su come ci avviciniamo all’altro, su come guardiamo l’altro, su come abbracciamo e accarezziamo i nostri cari, se stiamo per separarci da loro per sempre, accade sempre così.
E quanto siamo coscienti, noi come esseri umani, di esprimerci anche e soprattutto attraverso il corpo?
Come in ogni cosa, ci sono persone più consapevoli e più attive di altri nell’articolare fisicamente, ma in entrambe le storie del mio ultimo libro ho provato davvero a dare un nome a tutti i tipi di sensazioni fisiche, alle sfumature fisiche, le sfumature che prova il nostro corpo, quelle con cui si esprime. E l’ho fatto anche attraverso le descrizioni dello yoga, perché in fondo lo yoga è un modo per permettere all’anima di scorrere liberamente nel corpo e di contattare tutti gli angoli più nascosti del corpo. Nell’ultima parte della seconda storia c’è la descrizione di un massaggio e, lo sa chi lo ha provato, a volte grazie a un massaggio una persona può evocare luoghi e anche ricordi che erano rimasti nascosti perfino a se stesso. Mi hanno detto persone esperte nel fare massaggi che a volte le passioni gridano e irrompono quando si toccano determinati punti del corpo; e all’improvviso il corpo ricorda. E tutti i frammenti di memoria antica che riemergono diventano chiari e li devi affrontare. Così tutta questa storia di Col corpo capisco è un tentativo di dare al corpo una voce.
Sempre nella seconda storia di questo libro la figlia dice: «Mia madre ha capito il mio silenzio e mi ha insegnato a proteggere me stessa, a non permettere al dolore del mondo di insinuarsi dentro di me». Questa è un’esperienza che lei racconta continuamente e che in Israele è sicuramente un’esperienza forte, ed è una grande fatica probabilmente.
Certo, quando si vive a contatto con questi pericoli, quando tutto ciò che hai intorno può essere una minaccia per te, quando ogni persona che incontri per strada può esploderti addosso – accade letteralmente, è accaduto a gente che conosco – diventi inevitabilmente più sospettoso, ti chiudi come un pugno, copri la tua pelle con ogni meccanismo di difesa contro questi pericoli, ma è un processo in cui non puoi dividerti: non puoi decidere di essere duro, sordo solo in alcuni luoghi e non ovunque. Una delle cose che noto nelle persone accanto a me, israeliani ma anche palestinesi, è che tutti noi diventiamo molto ottusi, ci abituiamo alla morte, diventiamo quasi indifferenti alla miseria e alla sofferenza e c’è un prezzo per proteggerci dal mondo. Personalmente credo che ti chiudi a quello che il mondo ti presenta, anche alle cose brutte, è una specie di comportamento suicida, tu non vivi davvero la vita, ti limiti a proteggerti. Per me scrivere va proprio nella direzione contraria. Quando scrivo ho bisogno di aprirmi totalmente, di qualunque cosa stia scrivendo, in ogni situazione. Questo mi rende tutto più facile? Non è detto. Ma io non vorrei cedere.
Un pensiero sbagliato – dice un suo personaggio – è una conoscenza errata e i pensieri sbagliati nei suoi racconti creano molti danni. Quanti danni possono creare i pensieri sbagliati sugli individui e sulle società?
Questo errore è quasi ovunque: è in quello che pensiamo dei nostri genitori, nelle storie che ci raccontiamo, nel come loro ci guardano, ma, come ha detto lei, questo accade anche nella società. Noi vediamo come un popolo intero può restare intrappolato in una storia sbagliata e può commettere errori perché vede non la realtà, ma solo i riflessi delle proprie paure e per questo è bloccato nelle possibilità di redimersi e di cominciare a muoversi in una direzione migliore. Lo vediamo oggi con israeliani e palestinesi: non si guardano per niente. Quando un israeliano vede un palestinese vede un incubo e quando un palestinese vede un israeliano vede un incubo, non si vedono l’un l’altro come esseri umani. Restano del tutto intrappolati in quest’errore. Ciò che si dovrebbe fare, e non è una cosa facile adesso perché sono tutti paralizzati o impauriti e sospettosi, è creare quei canali davvero piccoli di alternativa, o i collegamenti tra questo singolo israeliano e questo singolo palestinese, per ricordarci che noi non siamo votati ad ucciderci tra noi, che l’altro non è un mostro, è un essere umano: può aver commesso molti errori, può aver commesso molti crimini, ma è un essere umano e se noi entrambi saremo attenti alla complessità dell’altro e se faremo attenzione alla storia che l’altro racconta a se stesso, allora potremo redimerci da tutti i nostri errori, forse.
Lei racconta, proprio a proposito del diventare esseri umani, come Rabin e Afarat, a un certo punto cominciarono a guardarsi come esseri umani e poterono lì cominciare il dialogo. C’è una possibilità ancora che i politici possano diventare esseri umani?
Certo. E credo che accadrà molto presto. Anche nei mesi scorsi quando Ariel Sharon invitò il primo ministro palestinese Mahmoud Abbas nel suo ufficio per molte ore e hanno parlato e hanno scherzato e si sono incontrati, hanno trovato subito cose comuni di cui parlare. Quello che ci meraviglia è quanto è facile rimuovere tutti questi ostacoli tra i due popoli. Noi ci puniamo, israeliani e palestinesi, quando guardiamo all’altro come stereotipo. Perché per guardare all’altro come stereotipo tu devi uccidere una parte di te stesso, devi ridurre e diminuire alcune delle tue stesse qualità, per poter guardare la realtà in modo tanto superficiale; e invece anche tu desideri ardentemente e hai bisogno di avere maggior complessità, più dimensioni nel modo in cui osservi la vita. Ricordo che la prima volta che il presidente Sadat atterrò in Israele nel novembre del ‘77, ci fu una forte ondata di emozioni, di emozioni buone e positive nei confronti dei nostri nemici tradizionali, gli egiziani perché per la prima volta potevamo permettere a noi stessi di provare tutto quello che si poteva sentire al mondo palestinese come esseri umani, come cultura, come una società, come un enorme paese molto interessante. Ed era una cosa di cui ci avevano privato, esattamente come ne siamo privati ora nel nostro atteggiamento verso i palestinesi, e come accade anche a loro che non ci vedono come esseri umani
I politici – lei dice – in diverse fasi parti della storia hanno messo da parte gli uomini di pensiero. Qual è oggi la loro collocazione? E i politici li lasciano da parte?
Sfortunatamente il ruolo che gli intellettuali possono giocare oggi è molto molto piccolo. Mi dispiace ma posso capirlo facilmente. E’ molto difficile capire la gente che parla di prospettive del futuro, di un’astratta idea di coesistenza, di fiducia negli altri, quando questi altri sono tanto violenti contro di te; è tanto difficile credere in parole e idee quando volano i corpi umani tutto intorno a te e i bambini vengono assassinati in modo così brutale. Non funziona proprio. Oggi non puoi avere questa flessibilità interna per cominciare a credere in quello che succederà da qui a due anni. Ciononostante è responsabilità degli intellettuali, degli scrittori, degli insegnanti, dei giornalisti, quella di ricordare alla gente che perfino nel pieno di questa situazione orribile, non c’è alternativa. Che non siamo votati ad uccidere e ad essere uccisi che in futuro saremo capaci di tornare indietro e di agire come esseri umani gli uni con gli altri. Questo è il massimo che possiamo fare oggi, tenere aperti questi canali di alternativa. Non più di questo.
La protagonista di Col corpo capisco dice che la cosa più complicata è quella di scrivere dal punto di vista del tuo nemico. Questo è uno sforzo che lei fa sempre, fin dall’inizio del suo lavoro di scrittore e in La guerra che non si può vincere parla di una tenda che va sempre lasciata sul confine e che sia la tenda dei colloqui di pace. Quante tende ci sono e quante possibilità ci sono di mettere altre tende?
Molto poche, ma molto importanti. Ci sono alcune organizzazioni che cercando di fare lavoro di coesistenza, c’è un’organizzazione che documenta le ingiustizie che si commettono nei territori occupati, da entrambe le parti, dalle autorità israeliane e dall’autorità palestinese, perché anche loro provocano dolore e ingiustizia ai loro stessi concittadini. C’è un’organizzazione che si chiama taayoush, che in arabo significa coesistenza, in cui volontari israeliani vanno quasi tutti i sabati nei villaggi arabi sotto coprifuoco e portano medicine, vestiti e cibi. Ci sono medici israeliani volontari che vanno nei villaggi palestinesi che non hanno accesso agli ospedali o ai dottori, e li visitano e portano medicine e a volte fanno delle operazioni, e fanno un gran bene. Ma questo non è abbastanza. Lei mi ha chiesto del capire il nemico. Penso che sia il meglio che possiamo fare nel conflitto. Se si guarda solo al proprio punto di vista non si vede mai la realtà e non si è capaci di affrontare non solo le minacce, ma a volte neppure le prospettive di cambiare in meglio. Quando un paese si sente o è assediato come Israele vede davvero la realtà senza sfumature. Si è in qualche modo ostaggi delle proprie paure. Si vedono solo allucinazioni, non la realtà. Bisognerebbe vedere la realtà da molti punti di vista, bisognerebbe essere più flessibili. Quando vedi la realtà anche dal punto di vista del tuo nemico, vedi anche i punti in cui sbagli, vedi i tuoi torti e c’è un’altra cosa: quando guardiamo noi stessi con gli occhi del nemico, comprendiamo quanto possiamo diventare crudeli e ottusi e a volte persino disgustosi nel nostro modo di agire. Noi non lo avvertiamo fino in fondo perché ci diciamo: stiamo usando queste orribili qualità in tempo di guerra, e quando la guerra sarà finita riacquisteremo la nostra umanità. E’ il nemico che sente prima di noi in che misura queste qualità negative si sono infiltrate nel nostro organismo. Così quando ti vedi dal punto di vista del tuo nemico, non è giusto dire che diventi lui, non del tutto: io sono israeliano e la mia identità israeliana è più forte perché permetto a me stesso di attuare questa flessibilità e vedere le cose in un modo più complesso e multilaterale.
E questo è vero per tutte le relazioni umane, anche in famiglia?
Sì, è così. Noi abbiamo questa tentazione di congelare tutti in un punto di vista e di costruire stereotipi. Non solo per gli stranieri, ma anche per le persone che conosciamo. E in qualche modo stereotipiamo anche noi stessi e ci abituiamo a un modo di vivere costruito intorno a dei clichè, che non sono vitali e non cambiano, e non ci assumiamo la responsabilità di rileggere noi stessi e gli altri in un modo sempre nuovo – questa è la preghiera dei laici. Ogni volta in cui cerchiamo di trovare una nuova formula per le situazioni familiari, ci sentiamo sempre più vivi e in contatto con tutti gli strati della realtà. Ogni aspetto delle relazioni umane, nei matrimoni, nelle coppie, tra genitori e figli, non è per niente facile da affrontare, è faticoso: è più comodo usare il solito punto di vista dello stereotipo. Per me come scrittore non c’è scelta, devo fare cosi perché devo raccontare sempre tutta la storia, in un modo sempre diverso, da tutti i punti di vista, da parte di tutti i protagonisti, per dividere l’esperienza di base in tanti piccoli frammenti, a seconda dei personaggi e delle situazioni. Questo è quello che fanno gli scrittori.
Nel suo libro Che tu sia per me il coltello c’era un padre che non voleva assolutamente che il figlio crescesse come entità autonoma. Qui, a età diverse, c’è una figlia che riconosce alla madre la capacità di non averla invasa e lei stessa riconosce una parte della madre non conoscibile prima. C’è uno sviluppo del ruolo di genitore?
Credo che essere un genitore sia l’eterno lavoro di trovare la distanza esatta tra te e tuo figlio, la linea precisa tra ciò che vuoi tu e ciò di cui lui o lei ha bisogno. E’ un compito molto difficile trovare il giusto equilibrio, per non penetrare nella vita interiore di tuo figlio, e non prevalere totalmente in tutti gli spazi interni, per permettere a lui o lei di essere se stesso in modo autonomo da te. Credo che sia una cosa che ho imparato crescendo come genitore, per permettere ai miei figli questa libertà di avere il loro posto nella vita senza la mia presenza, anche se non è facile per me, che sono un padre ebreo, concedere loro questa libertà. Una della cose peggiori che può accadere a un ragazzo è essere invaso con tanta aggressività dai genitori fino al punto in cui il figlio, a prescindere da ciò che lui penserà di sé, anche quando crescerà si guarderà sempre attraverso gli occhi dei genitori. E non è sempre una bella vista. A volte è brutta e dolorosa, ma siamo costretti a farlo perché così siamo stati abituati a guardarci e a giudicarci dall’inizio. Ciò che Rotem nella mia storia cerca di fare è liberare se stessa dallo sguardo della madre scrivendo una storia. Perché quando scrivi una storia su qualcuno che ti ha invaso, che in un certo senso ha abusato di te, e lo fai nel modo giusto, riesci a spostarlo dal tuo spazio interno. Non lo accusi, non lo uccidi per questo, ma trovi per lui un altro spazio di essere nella tua vita, senza danneggiarti, senza causarti dolore. Questo è il motivo per cui Rotem capisce dopo aver letto la storia alla madre morente che la storia è il suo unico luogo al mondo, dove lei si sente improvvisamente e totalmente se stessa senza questo campo magnetico della madre.
Il suo libro che raccoglie i saggi politici si chiude con due notazioni sui bambini: secondo alcune agenzie delle Nazioni Unite, più di un quarto dei bambini palestinesi oggi soffre di malnutrizione, e gli scolari israeliani cominceranno tra poco a frequentare corsi speciali per riconoscere sospetti kamikaze. Cosa possiamo fare per lasciare ai bambini un’eredità diversa da questa?
Naturalmente dobbiamo cambiare la realtà e creare una realtà in cui i bambini vivranno senza paura, non avranno paura quando vanno a scuola, quando prendono l’autobus. Nella nostra famiglia ci tocca programmare strada per strada tutto il percorso per mandare a scuola nostra figlia, per vedere se non è pericoloso, usiamo molte energie solo per proteggere i ragazzi e naturalmente quando li iper-proteggi, loro vivono la sensazione di non essere protetti, di essere troppo esposti. Noi proibiamo a nostra figlia di undici anni di vedere in televisione i film dell’orrore, ma quello che lei vede ogni giorno nei notiziari è molto più terrificante di ogni film che io abbia mai visto. Così l’unico è sperare che in futuro nella realtà cambi qualcosa. La gente vuole cominciare a vivere una vita più stabile, senza pericoli immediati. Non credo che accadrà molto presto, ma alla fine accadrà. Ho paura che questa generazione, quella dei ragazzi che hanno l’esperienza degli orrori degli ultimi tre anni, parlo di israeliani e palestinesi, sia stata infettata; penso che pagheranno un prezzo pesante per quello che hanno visto, per l’esperienza che hanno subito, ma voglio sperare che i nostri figli possano vivere una vita migliore, conoscano cose migliori.
Biografia
David Grossman è nato nel 1954 a Gerusalemme ed è uno degli scrittori israeliani più conosciuti e amati al mondo. E’ autore di opere di narrativa, vincitrici di premi internazionali, e di racconti e pezzi giornalistici apprezzati a livello internazionale. Ha scritto, inoltre, alcuni testi per bambini ed è molto noto per suoi saggi sulla questione palestinese. Tra le varie onorificenze ricevute ricordiamo quella del governo francese che l’ha nominato Chevalier de l’Ordre des Artes et des Lettres. David Grossmann vive attualmente in Israele con la moglie e figli. (da http://www.festivaletteratura.it)