Last Updated on 17 Aprile 2010 by CB
Due libri di Roland Barthes usciti da poco fanno pensare a due capolavori del semiologo. Il Journail de deuil (il titolo in italiano è, misteriosamente, Dove lei non è, traduzione di Valerio Magrelli) è dedicato al dolore per la morte dell’amatissima madre (il dolore è “qualcosa che fa male nel cuore dell’amore”), e nel suo svolgersi in brevi frammenti ricorda, è in un certo senso l’altra faccia dei Frammenti di un discorso amoroso.
Questo diario del dolore è più difficile, è un tentativo di racconto, fatto mentre scrive anche altro e finisce di scrivere La camera chiara (dedicato alla madre). Un diario durato quasi due anni, dal 1977. Sono brevi illuminazioni intense che cercano di sondare il nucleo più segreto della mancanza, del ricordo, del tempo – del proprio tempo interiore – che gradualmente si arrende all’irrimediabile vuoto lasciato da un Altro che è la Madre.
“L’emozione (l’emotività) passa, la tristezza resta”.
“Non ho voglia, ma bisogno di solitudine”.
“Lutto: ho imparato che era immutabile e sporadico: non si consuma, perché non è continuo.
Se le interruzioni, i salti storditi verso qualcos’altro, vengono da un’agitazione mondana, da un inconveniente, la depressione aumenta. Ma se questi “cambiamenti” (che fanno lo sporadico) vanno verso il silenzio, l’interiorità, la ferita del lutto passa a un pensiero più alto”.
“Quanto alla morte, la morte di mam. mi dava la certezza (fino a quel momento astratta) che tutti gli uomini sono mortali – che non ci sarà mai discriminazione – e grazie a questa logica, la certezza di dover morire mi calmava”.
“Quando mam. viveva (cioè durante tutta la mia vita passata) ero nella nevrosi per paura di perderla.
Adesso (ecco cosa mi insegna il lutto), questo lutto è per così dire l’unico mio punto che non sia nevrotico: quasi che mam., come ultimo dono, avesse portato lontano da me la parte cattiva, la nevrosi”.
Anche I carnet del viaggio in Cina ricordano vagamente un suo libro precedente, ma dedicato al Giappone, L’impero dei segni. In questo taccuino di appunti Barthes cerca di decostruire, vincendo l’indifferenza e la noia che qua e là si nota nel testo, la retorica del comunismo maoista anni Settanta.
Il viaggio di circa un mese, nel 1974, nasce da un un invito delle autorità cinesi. Barthes va in Cina insieme a tre intellettuali del gruppo Tel Quel, a quel tempo in pieno fervore maoista – tra loro Julia Kristeva – e al filosofo Francois Wahl. Inutile dire che il rituale comprende un programma di visite ufficiali in fabbriche di trattori, scuole, ospedali, stamperie, coltivazioni agricole, quartieri cittadini, il tutto corredato da informazioni sulla riuscita della Cina maoista; così l’Occidente di quegli anni amava vedere il Regno del Mezzo.
Barthes sminuzza in micro dettagli l’esotismo del realismo socialista. Gli stereotipi si infrangono sotto il suo sguardo implacabile. Ma tutto questo non si trasforma nella pregnanza del libro dedicato al Giappone. Le cose esistono e magari accadono imprevedibili, ma significano poco altro rispetto a quello che sono. (Cristina Bolzani)