Last Updated on 25 Novembre 2022 by CB
Il primo, e spesso il più apprezzabile, effetto dei film che raccontano la vita degli scrittori, è l’aumento delle vendite dei loro libri. Sta succedendo anche a Sylvia Plath dopo l’interpretazione cinematografica di Gwyneth Paltrow.Il rischio di banalizzare è davvero alto, in questo caso, perché la sua esistenza tragica – culminata nel sucidio, nel pieno della maternità e della produzione letteraria – è fin troppo consona a una translazione filmica.
Leggendo i suoi Diari si riesce a immaginare l’essenza del suo dolore, la quasi disumana attrazione per la perfezione. Ted Hughes, marito e poeta, ha scritto che Sylvia aveva molte maschere, e che quasi mai ha espresso il suo vero io. Maschere in perenne conflitto, a cominciare dallo scarto tra l’identità femmminile, di moglie e madre, e quella poetica, creativa. Nei Diari, anche, si coglie quanto fosse fugace la sua visione dell’esistenza. C’è una specie di continuo dialogo con la morte, in lei che è sempre sul bordo di un limite, preda di profonde malinconie. Un io omicida cova dentro di lei. «Tic tac… Una Vita Sta Passando. La Mia Vita.»
Proprio sotto la pressione di questo dolore indicibile Sylvia si trasforma in poeta – scrive Nadia Fusini nel saggio introduttivo – come Dafne si trasforma in albero.
Colpisce l’intensità della sua poesia, la potenza evocatrice del suo linguaggio. «Non v’è dubbio – scrive la Fusini – che Sylvia Plath compia una certa manipolazione magica delle parole. E si compiaccia di questo. Certi suoni ripetuti, certe melodie, refrain da ninna nanna, motivi da ‘nursery rhyme’ che costellano la sua poesia hanno il sapore reattivo di formazioni controfobiche, o scaramantiche (…)»
Dell’ultima poesia scritta dalla Plath, Edge, scrive la Fusini: «Perché Sylvia intitoli questa poesia – la sua davvero ultima poesia – Edge, è un mistero. Si sente forse ancora sulla soglia tra due mondi: come Antigone, quando viene murata viva nella sua camera di sepoltura da Creonte. Illuminata da una spettrale luna, strega e teschio col suo cappuccio d’osso, Sylvia si posiziona sul limite, sulla soglia, sull’orlo (tutti i sensi di edge), come tra due morti. O due mondi. Io sono certa che nella notte tra il 10 e l’11 febbraio, quando mise accanto ai lettini dei suoi bimbi le due ciotole di latte e la fetta di pane e burro per la colazione del giorno dopo, e poi scese in cucina e mise la testa nel forno (e fu davvero a Dachau, Auschwitz, Belsen) era sicura che da quella morte, che stava per darsi, sarebbe tornata.
Forse volle morire per infliggere la morte a tutti i suoi nemici, a chi non la lasciava vivere, ai fantasmi, alle proiezioni della sua povera anima spaventata. Il monossido di carbonio avrebbe “gasato” l’angoscia, e lei sarebbe tornata pura, il giorno dopo. Pensò senz’altro – io credo – che avrebbe superato il limite, reso viabile la soglia tra le due morti. Vinse quella notte il fascino del sacrificio, il miraggio della rinascita. L’idea omeopatica – fallace – che la morte possa curarsi con la morte. E non con la poesia. Così si concluse quello che Sylvia Plath aveva chiamato “l’aperto colloquio tra me e il cielo”».
(Cristina Bolzani)
da Opere, I Meridiani Mondadori, Milano 2002
Bambino
Il tuo occhio limpido è l’unica cosa infinitamente bella.
Voglio riempirlo di colore e anatroccoli,
dello zoo del nuovo
di cui tu mediti i nomi –
bucaneve d’aprile, pipetta indiana,
piccolo
stelo senza grinze,
specchio d’acqua in cui le immagini
dovrebbero essere maestose e classiche
non questo angosciato
torcersi di mani, questo buio
soffitto senza una stella.