Scommettiamo sull’improbabile

Last Updated on 1 Marzo 2004 by CB

La lingua in cui sentiamo parlare Edgar Morin, quando viene in Italia, è il fritagnol, come lui stesso l’ha definita qualche anno fa: un italiano francesizzato e spagnolizzato di cui chiede pubblicamente scusa a Dante e Leopardi, ma che, rivendica, “viene dal mio cuore”. Un esperanto personale in cui sposta a suo piacere accenti e intonazioni e che sembra corrispondere insieme alla sua biografia e al suo modo di intendere la società.

La sua biografia è quella di chi discende da una famiglia che ha fatto del viaggio e della curiosità le sue qualità da tramandare: di origine ebrea spagnola, il padre era nato a Salonicco, all’epoca città ottomana, da una famiglia con protezione consolare originaria di Livorno ed era stato naturalizzato francese.

La stessa “identità complessa” Morin l’ha vissuta nel rapporto con la cultura e la politica, rompendo le barriere tradizionali tra le discipline scientifiche e quelle determinate dalla scelta di un’ideologia: comunista fino al ’51, fu tra i primi a lasciare le file del Partito comunista francese e l’idealizzazione di Stalin.

Autodidatta e “onnivoro culturale”, come si definisce, a 83 anni colpiscono la sua vitalità e la capacità produttiva. Un sorriso denso di simpatia per il mondo e di ironia, uno sguardo che sembra rispecchiare la disponibilità agli aspetti giocosi della vita (“la poesia della vita contro la prosa tecno-burocratica”) e la ricerca continua di un metodo rigoroso. “Metodo” che, ci ricorda più volte nei suoi libri, significa “cammino”.

Nel suo incessante cammino a fine gennaio 2004 Edgar Morin si è fermato due giorni a Percoto, in provincia di Udine, dove ha ricevuto da una giuria internazionale davvero prestigiosa presieduta da Claudio Magris, il Premio Nonino 2004, come “Maestro del nostro tempo”.

Edgar Morin era, naturalmente, del tutto a suo agio tra danze e distillati proprio come tra libri, ricerche e studiosi. Affrontare un’intervista con lui comporta il senso dell’avventura e della rinuncia, innanzitutto perché è davvero difficile scegliere un percorso che colga un numero ridotto di elementi dalla sua scrittura e dal suo sapere enciclopedico in limiti di tempo ragionevoli, e poi perché dispiace vederlo (e vederci) strappare alla tavola davanti a un piatto di polenta fumante, incalzati dall’orario di un aereo in partenza. Ma al tempo tiranno abbiamo comunque sottratto, con la complicità della famiglia Nonino, la possibilità di realizzare, e di offrirvi, quest’intervista, che Edgar Morin ha scelto di fare, naturalmente, in italiano (modello fritagnol).

L’intervista di Luciano Minerva

Nel 1999 l’Unesco ha pubblicato il suo saggio sui “Sette saperi dell’uomo per l’educazione del futuro”. Il ministero della Cultura francese ha dato il suo sostegno a “La testa ben fatta”. E’ un riconoscimento al suo ruolo di maestro. E quest’anno le viene assegnato il Premio Nonino come Maestro del nostro tempo. Chi sono oggi i maestri e da quando ha cominciato a sentirsi maestro, anche se nella sua vita non ha mai insegnato direttamente?
Di fatto non mi sento maestro. Quando mi chiamano maestro ho istintivamente la reazione dello scrittore francese Georges Courteline, che quando un ammiratore gli diceva “maestro” rispondeva: mi tratta da vecchio cretino. No, devo dire che la parola maestro mi fa piacere ma dentro di me non mi sento maestro. Se penso a due persone un po’ illuminanti del nostro tempo, penso a Nelson Mandela e al Dalai Lama. Nelson Mandela, perché ha ripreso dalla sua formazione marxista l’universalismo. Non ha voluto fare una separazione tra neri e bianchi per il Sud Africa, non ha scelto la soluzione più diffusa, quella del divorzio, come hanno fatto la Repubblica ceca e la Slovacchia. Lui ha cercato una soluzione comune ed è diventato, fuori dai dogmi del comunismo, una personalità di alto livello morale per il pianeta. L’altro Maestro è il Dalai Lama, in primo luogo perché penso che il buddismo sia una forma religiosa, ma quasi non religiosa, di carattere universalistico e con un’idea forte della compassione per la sofferenza. Si può obiettare che la misericordia è anche nei messaggi del Cristo o di Maometto. E’ vero, ma questo avviene in una religione monoteista, monolitica, che ha generato molto fanatismo: l’abbiamo visto nel cristianesimo e nell’islamismo. La seconda idea importante del messaggio del buddismo è quella dell’impermanenza, e questo è molto importante, perché noi tendiamo a pensare che le cose di oggi restino sempre le stesse e questa visione dell’impermanenza è fondamentale. Terzo, lui in esilio ha compreso molte cose che non poteva capire quando era chiuso nel suo Tibet. Io sono stato invitato ad esempio a una riunione ecumenica, a cui ha erano presenti rappresentanti di tutte le religioni. Ma non ha invitato solo le grandi religioni, l’islamismo, il cristianesimo, l’ebraismo, ma anche alcuni sciamani, rappresentanti di religioni primitive, quasi non-religioni, per rispetto di tutte le fedi che esistono in tutte le civilizzazioni. E in più ha voluto invitare rappresentanti della filosofia e della scienza. Questa visione ecumenica mi pare molto bella e questa persona merita attenzione e omaggio.

Sull’etica della comprensione lei lavora da molto tempo. Nel ‘63 scrisse una sceneggiatura in cui un gerarca nazista assumeva l’identità di un ebreo sua vittima. Questo invece è un aspetto permanente nel suo pensiero.
Sì, penso che la comprensione sia una cosa permanente e molto legata alla costruzione della complessità. Un essere umano non si può ridurre a un solo aspetto della sua personalità, ha lui stesso potenzialità diverse, maggiori, migliori, ha una molteplicità di personalità potenziali. Sapendo questo non possiamo condannarlo sulla base di un solo atto; come diceva il filosofo Hegel, se chiamo criminale una persona che ha commesso un crimine nella sua vita, riduco tutti gli altri aspetti della sua vita. Anche queste persone hanno la possibilità di pentirsi, come vediamo nel romanzo di Dostoevskij “Delitto e castigo”, come vediamo nella vicenda delle Brigate rosse. Quelli che chiamiamo “i pentiti” non sono quelli che fanno ufficialmente un’autocritica, sono persone che sentono, essi stessi, di aver commesso un atto davvero criminale ed attuano il pentimento, che va con il perdono.

La cosa terribile è che nel nostro mondo c’è un regno dell’incomprensione e che, malgrado Internet e tutte le forme di comunicazione, cresce l’incomprensione dell’Occidente verso l’Islam, che è una religione molto complessa e che viene ridotta unicamente all’integralismo, e cresce anche nell’Islam l’incomprensione verso l’Occidente, che lo riduce al capitalismo e all’imperialismo, che sono cose diverse. Dunque, malgrado lo sviluppo della comunicazione, c’è una crescita dell’incomprensione. E’ molto difficile comprendere altri riti, altri miti, altri usi, un altro modo di pensare, perché la più grande difficoltà della comunicazione è il passaggio da una struttura mentale a un’altra struttura mentale. Si può tradurre da una lingua all’altra, ma non da una struttura mentale all’altra: se ad esempio ho una struttura mentale che pensa che tutto è determinismo, non posso capire il caso, le libertà. Come fare? Occorre tentare di creare una metastruttura in grado di capire l’altra struttura.

Ci sono altre difficoltà nella vita quotidiana: perché tante incomprensioni in una famiglia, tra le generazioni, tra fratelli, in un ufficio, con i compagni di lavoro, nell’università? Si poteva pensare che con lo sviluppo della conoscenza, della psicologia, ci sarebbe stata una diminuzione dell’incomprensione. Invece l’individualismo ha portato a uno sviluppo dell’egocentrismo che sviluppa l’autogiustificazione di sé, porta ad avere tutto per sé dimenticando gli altri. C’è anche il mentire a se stessi, quello che gli inglesi chiamano self-deception. Ci sono molte radici psicologiche dell’incomprensione.

Allora come possiamo sperare in un progresso della comprensione umana tra persone della stessa famiglia e tra popoli diversi, se non possiamo progredire nella comprensione? Il problema della comprensione per me è diventato così un problema primario, da cui ne dipendono tanti altri. La comprensione ha bisogno di un minimo di simpatia; se c’è una visione fredda, se ci si ferma a una spiegazione oggettiva, si può conoscere l’altezza, il peso, il colore degli occhi di una persona, ma senza una corrente di simpatia non si può capire la persona. Si vede come l’amicizia permette la comprensione della gioia e della sofferenza dell’altro. Si vede come l’amicizia permette la comprensione della gioia e della sofferenza dell’altro: per comprendere quindi occorre una parte soggettiva. E questo secondo me spiega un fenomeno molto curioso: che le persone sono molto più comprensive quando vanno al cinema che nella vita quotidiana. Al cinema, ad esempio, se vediamo un vagabondo come Charlie Chaplin, sentiamo per lui molta simpatia, ma se incontriamo un vagabondo per la strada non lo guardiamo. Vediamo come il Padrino incarnato da Marlon Brando sia un uomo criminale, ma non lo vediamo solo come un criminale, cogliamo i suoi sentimenti di padre, di uomo, e così via: in questi casi abbiamo una comprensione basata sulla relazione soggettiva di proiezione e identificazione. E lo stesso accade per il teatro o per la letteratura. Quando manca questa partecipazione soggettiva, guardiamo in modo freddo e non siamo più in grado di comprendere gli altri.

Ha parlato di cinema come esperto di lunga data e grande appassionato. Il 1962 lei scrisse “L’esprit de temps”, che in Italia fu tradotto come “L’industria culturale”. La partecipazione al presente del mondo – scriveva allora – è l’apporto più nuovo della cultura di massa. Era lo stesso anno delle prime trasmissioni satellitari, lei anticipava un po’ questa possibilità reale di essere con l’informazione ovunque nello stesso tempo. Oggi che questa possibilità è reale, denuncia il fatto che le democrazie tendono a ridurre sempre di più la possibilità di decisione dei cittadini. Secondo lei come viene vissuta questa distanza abissale tra il mondo che ci entra dentro casa e l’impossibilità di agire su questo mondo?
E’ vero che c’è una situazione che oggi non si può superare, ma è anche vero che non c’è una totale impossibilità. Quando si vedono per esempio le sofferenze dei palestinesi in televisione, questo può aiutare lo sviluppo di un’opinione pubblica in favore della fine di questa guerra e di questa repressione, per una soluzione pacifica. Negli Stati Uniti i media diedero molte informazioni anche visive sulla guerra del Vietnam e questo suscitò il movimento di protesta giovanile e giocò il suo ruolo sulla fine della guerra del Vietnam. Se vediamo disastri, inondazioni, terremoti possiamo inviare soldi, fare atti di solidarietà. Dunque non siamo totalmente impotenti. E’ evidente che per molto tempo l’idea, la necessità di una democrazia mondiale sarà forse l’ultima cosa che potrà concretizzarsi quando si costituirà passo dopo passo una società a livello mondiale. Attualmente il problema che abbiamo è quello di sviluppare la possibilità di intervento per noi, Nazioni europee, sull’Europa stessa, ed è una cosa molto difficile, perché da tempo si elegge il Parlamento europeo ma le elezioni si sono fatte soprattutto sulle questioni nazionali e non su quelle europee e non ci sono ancora partiti e sindacati veramente transnazionali. Non si è ancora formata una coscienza forte dell’identità europea. Dobbiamo andare in questo senso, perché se costruiamo un’Europa pacifica e umanista questa potrà intervenire nella politica mondiale.

“Camminante, non c’è alcuna via. Ogni via si fa camminando.” E’ una citazione di Antonio Machado che lei riprende spesso, anche come grande viaggiatore ed erede di una famiglia che si è spostata in più Paesi.
Non basta l’esperienza di massa della migrazione per sapere che il cammino si fa camminando. Questa frase di Machado, che ho fatto mia, significa non cercare un cammino già fatto, significa pensare che il cammino già fatto forse non è buono. Nella vita di ogni persona c’è un cammino che si fa e c’è l’idea di prendere coscienza di se stesso e della propria evoluzione nel cammino. Non è ancora diventata coscienza mondiale. Quest’espressione io l’ho presa in senso spirituale, intellettuale: mi ricordo ad esempio che a un certo punto, tra il 1969 e il 1970, mi venne l’idea di fare un libro che si chiamava “Il metodo”. Non conoscevo ancora il contenuto, la struttura di questo libro. Avevo un’intuizione, ma non tanto precisa, dell’idea e non avevo ancora la parola chiave “complessità” che poi mi ha permesso di raggiungere vari aspetti della conoscenza. Pensavo che ci fosse necessità di cambiare il nostro modo di conoscere e renderlo più ricco, più adeguato. Con questa idea di metodo ho cominciato a camminare intellettualmente e oggi continuo su questa strada. Ad esempio ho scritto una prima versione del Metodo tra il ’77 e l’80, ma ogni volta ho ricominciato e ho cambiato ogni libro. C’è una trasformazione del libro che si è pensato: non è tutto già elaborato, non si sa esattamente dove si arriverà. E questa è una cosa che mi stimola.

Lei usa spesso le parole “veglia”, “vigilanza”, “vigile”, “risveglio”. E’ un tema presente nelle grandi religioni. Come vive e come pensa che questo risveglio si possa esprimere a livello globale, in questa Terra-Patria di cui parla?
Penso che noi di fatto siamo quasi sonnambuli. Ho citato una frase del vecchio Eraclito, una delle più belle secondo me: “Svegliati, dormi”. Noi pensiamo di essere svegli, ma intanto continuiamo ad agire come sonnambuli. Ma non possiamo uscire totalmente dal sonnambulismo, dalle cose che facciamo automaticamente. Adesso, mentre parlo con lei, nella mia testa funzionano milioni di interconnessioni, di sinapsi cerebrali, ma io non sono cosciente di tutto, dei processi del cuore, dello stomaco, che sono automatici, non coscienti. Sono automatici, ma non in senso volgare. Le macchine fanno tutto in modo programmato, mentre noi possiamo fare in ogni momento una cosa inattesa. Tutti i grandi personaggi della storia erano delle macchine non volgari: Gesù Cristo, Maometto, o Marx o de Gaulle non hanno fatto quello che ci si aspettava da loro, questa è un’idea importante. Allora l’unica cosa è non dormire totalmente: questa è la coscienza. La coscienza è un po’ di luce, ma non è una luce totale. Non è possibile una luce totale, anche la luce fa dell’ombra. Noi sappiamo che la ragione fredda non è quasi niente: la ragione ha bisogno della passione. Non ci sarebbe stato il Maggio del ’68 con la sola ragione, non c’è una ragione senza emozione. E nello stesso tempo la passione da sola porta alla follia, la passione, anche la più grande, ha bisogno di ragione passione. E’ questa fiamma della ragione che deve risvegliare tutte le parti dell’umanità.

“Aspettati l’inatteso” è un’altra frase che lei ama e cita più volte, e che riecheggia anche in quest’intervista. E in questo mondo, dove l’impressione è di andare verso la catastrofe, lei dice “Scommettiamo sull’inatteso”. Come è possibile?
Questo concetto è molto antico. Euripide 2500 anni fa ha concluso tre delle sue tragedie con l’idea che noi ci aspettiamo una cosa probabile e invece arriva l’inatteso. Ma non abbiamo fatto nostro questo sentimento, restiamo sempre molto stupiti. Nella mia esperienza l’inatteso è arrivato molte volte ma, come nelle storie individuali, anche nella storia umana non si realizzano sempre le cose che hanno maggiori probabilità, succedono le cose improbabili. Allora oggi l’improbabile su cui scommettere è che non ci sarà la catastrofe umana, ma qualcosa di nuovo che porterà a una metamorfosi.

Biografia
Edgar Morin, il cui vero nome è Nahum, è nato a Parigi nel 1921 da genitori ebrei sefarditi, da cui deriva forse la sua vocazione planetaria. Morin è il cognome che assume durante la Resistenza, traendolo da una sua compagna, che poi sposerà nel 1945. Autodidatta, perché costretto a interrompere gli studi universitari per impegnarsi nella Resistenza, aderisce, dopo una prima attrazione per i movimenti anarchici, pacifisti e libertari, al Partito Comunista Francese, da cui è espulso nel 1951 a causa di un articolo apparso sul “France-Observateur”. Sociologo al C.N.R.S. (Centre national de la recherche scientifique), di cui è tuttora direttore per la sezione scienze umane e sociali, si dedica negli anni Cinquanta a ricerche, rimaste celebri, sul divismo, i giovani e la cultura di massa. Collabora con articoli politici al “France-Observateur” e poi al “Nouvel Observateur”. Fonda, nel 1956, con altri intellettuali transfughi del P.C.F, la rivista “Arguments”, che si ispira a “Ragionamenti” di Franco Fortini, e che durerà fino al l962, affrontando i temi politici cruciali di quegli anni: il congelamento della lotta di classe nei paesi del “socialismo reale”, la nuova classe burocratica, la guerra d’Algeria, il gaullismo. Nel 1967, con Roland Barthes e Georges Friedmann, fonda la rivista “Communications, di cui è tuttora co-direttore. Un soggiorno al Salk Institut for Biological Studies di La Jolla nel l969 lo mette a contatto con la teoria dei sistemi che costituirà il punto di partenza delle sue successive ricerche epistemologiche. Nel 1998 è nominato Presidente del Comitato Scientifico per la riforma dei saperi nelle scuole secondarie superiori dall’allora Ministro dell’Istruzione francese Claude Allègre.Attualmente è Presidente delľAssociazione per il Pensiero Complesso con sede a Parigi e Presidente dell’Agenzia europea per la Cultura (UNESCO).

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