The Beat Goes On

Last Updated on 1 Giugno 2004 by CB

E’ vero che ha avuto la fortuna degli incontri fantastici con molti scrittori geniali del Novecento. Ma anche lei, Fernada Pivano, ci ha messo molto, del suo talento e della sua passione per la letteratura.Cresciuta in una ricca «famiglia vittoriana» nella quale si conversa in inglese e francese; al ginnasio ha tra i compagni di classe Primo Levi, e come supplente d’italiano Cesare Pavese. Si laurea in letteratura inglese con una tesi su Moby Dick di Melville, diventa assistente del grande filosofo esistenzialista Nicola Abbagnano (forse anche per questo saprà apprezzare tanto bene la beat generation di Allen Ginsgberg e Kerouac…).

Nel 1948 i primi incontri con gli americani a Roma, come Tennessee Williams e Gore Vidal. A Parigi vede Richard Wright e Alice Toklas e Max Ernst. Il dieci ottobre il primo appuntamento con Hemingway, a Cortina. Diventa amica dell’intellighenzia di allora – Moravia, Elsa Morante, Piovene, Guttuso, Montale. Traduce Tenera è la notte, Il grande Gatsby, Addio alle armi, Spoon River, Figli dello zio Tom. Prende una seconda laurea, in pedagogia, si diploma in pianoforte.

E’ solo l’inizio di una avventura esistenziale e professionale unica, documentata dai bigliettini autografi, dalle cartoline, dalle fotografie che la ritraggono insieme a William Faulkner, Gregory Corso, Allen Ginsberg, William Burroughs, John Cage, Charles Bukowski, Timothy Leary, Lawrence Ferlinghetti. Poi i nomi più recenti, Don DeLillo, Grace Paley… Istantanee di un’America libertaria riprese dall’obbiettivo attento di Ettore Sottsass.

Ha ragione il fotografo Guido Harari, curatore di questo The Beats Goes On. Nelle foto che illustrano la biografia beat della Pivano si nota al di sopra di tutto il suo sguardo, curioso onnivoro appassionato amorevole, che si posa sullo scrittore che ha davanti; «occhi che indagano, urlano, piangono, ringraziano, muovono montagne». Una vita vissuta da intellettuale, ma anche con tanto cuore, curiosità, e, ancora, passione.

«Questo è beat: amare la vita fino a consumarla», scrive Kerouac. (cb)

Da The Beat Goes On, Mondadori 2004, 17,60

Sulla tomba di Hemingway
Ketchum, giugno 2001

«Eccola qui la lapide che avevo desiderato tanto vedere, che avevo desiderato tanto non dover vedere, che avevo desiderato tanto che non dovesse mai esistere. Quella lapide fra gli alberi, vicino a quella piccola del cacciatore d’orsi che era suo amico, vicino a quella ancora più piccola del figlio che lo ha tradito, vicino a quella ancora più piccola della nipote che ha rinnegato la vita, vicino a quella del medico spagnolo che ha cercato di salvarlo dal suicidio, lì c’era la grande lapide bianca, col suo nome, con due date, con la tragedia di troppe generazioni per poterla sopportare. A saperlo c’era un coyote, che ogni sera al crepuscolo arrivava correndo vestito coi colori di Armani e una coda enorme più lunga di lui, e scavalcava un’inferriata, e faceva il giro della tomba e scompariva scavalcando di nuovo l’inferriata. Non sono abbastanza buddhista da credere che fosse la sua reincarnazione. Ma lui nei libri e nelle chiacchiere diceva sempre «My sweet dear coyote». Come si fa a sapere».

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