Last Updated on 28 Gennaio 2010 by CB
100 anni fa nasceva Ennio Flaiano, pochi ne parlano ancora, in effetti. Ma i nostri teatri sembrano contare sulle dita di una mano le cose da mettere in scena. Pirandello, Shakespeare, Euripide ma dimenticano un omaggio a Flaiano che per il teatro non ha scritto molto ma, appunto per questo, possibile che nessuno ogni tanto?…
Se si guarda il giornale si capisce meglio cosa intendo, viene sonno. L’alternativa a questa fisiologica narcolessia che prende guardando l’offerta teatrale della capitale, per esempio, è arrendersi a quella metamorfosi della età matura che ti porta spesso a diventare un “abbonato”. A quel punto la scelta è delegata, possiamo dormire tranquilli, in platea.
In effetti la scena della prosa italiana richiama facilmente ad una sensazione di reclusione dentro un repertorio “classico” riproposto dai soliti nomi. Sentirsi abbonati significa andare a teatro a scaldare la poltrona comprando una offerta in pacchetto, affidandosi dunque ai direttori artistici, abbonandosi al teatro dove si incontrano i conoscenti, una inclinazione medio borghese al “fare salotto” (anche in poltronissima) che pervade la cultura italiana da sempre, il suo ceto medio-alto, di destra e sinistra e forse soprattutto a Roma. Uno dei motivi per cui, tra l’altro, una parte di Flaiano non sopportava Roma pur avendola eletta sua città.
Il ricambio generazionale nel teatro non è avvenuto in Italia e gli attori con meno di 60 anni non hanno accesso a quella fama e quel timore reverenziale, a quella adulazione che era riservata loro in tv. Poi sono scomparsi anche dalla tv, per lasciare spazio a “nessuno aspiranti qualcuno” e ai loro “talent scout” (che sono pure peggio) in questa continua offerta “live” di “training” e “work in progress” di tanti “teenagers” immortalati prima di sfondare e in genere destinati all’oblio anche se sfondano perché in effetti che vuoi sfondare se intorno è vuoto?
La crisi del teatro, assieme alla crisi del cinema italiano, rimane una malattia cronica del nostro sistema con un inspiegabile eterno stadio terminale.
Una generazione intera nel teatro ha costretto quelle a venire a trasformare i suoi figli in eterni attor-giovani, a fare i semi dilettanti, perché la torta da spartire dei contributi pubblici al teatro è pur sempre piccola, sempre più piccola, e non è detto che il finanziamento pubblico non abbia le sue storture, ma lasciamo perdere… perché la gente non va tanto a teatro, perché la stampa non ne parla o parla sempre degli stessi.
La crisi del teatro in realtà è la crisi di un intero Paese gerontofilo e nello stesso tempo senza memoria (forse smemorato proprio perché vecchio) un Paese semmai capace di recitare a memoria le solite cose, pur belle, ma destinate a diventare filastrocca per effetto dell’inflazione.
Per questa ragione, questa dei cartelloni e dei soliti nomi e dei soliti drammoni, non è raro che le cose migliori si trovino rappresentante nei circuiti minori, dove qualcuno osa fare scelte meno scontate. Non è strano trovare dei bravi attori – giovani (comunque sempre sopra i trentanni, intendiamoci) che fanno gli attori, si autofinanziano e magari fanno anche altri lavori per mangiare.
Il teatro italiano inteso come quello che “è in cartellone” a parte alcune eccezioni (mi sentirei di citare la compagnia Raffaello Sanzio che riporta il teatro alla sua funzione originale di “psicopompo”, di traghettatore, funzione incarnata a mio avviso da Carmelo Bene, nei secoli dei secoli) non seduce, non persuade. Lo ha capito bene Marco Paolini un mattatore che con pochi elementi scenici fa grandi ascolti portando il teatro sociale in tv, moderno predicatore, riscopre lo stile dell’invettiva. Segni di vita su Marte, viene da dire, viva Paolini…
Insomma nel teatro il deus ex machina dovrebbe scendere nello spazio scenico non per fare passerella, come nel vaudeville, ma per rapirci e portarci altrove, sicuramente fuori dal teatro se no ci ritroviamo a fissare il lampadario di cristallo. Il teatro italiano non propone quasi mai niente che ci suggestioni (e non è questione di vecchio o di nuovo) o che ci faccia tornare a casa con una idea, almeno una idea nella testa.
La guerra spiegata ai poveri messa in scena da Gabriele Linari con la compagnia Labit, (è una compagnia che si autofinanzia) è in scena fino a stasera al Teatro Due di Roma. Ha il merito di farci andare a casa con una idea nella testa.
Il testo di Flaiano, spiega il regista, “si diverte su una tragedia, quella della guerra (è stato scritto nel 47) ma ci spiega quanto sbagliamo e quanto sbaglieremo ancora”.
Un presidente, un generale, un ministro e un perito religioso, assieme ad altre figure, pianificano un conflitto appena avviato ma alla fine non per cercare una via d’uscita, piuttosto per perpetrare il loro gioco di ruoli. Nessuno agisce con l’intento di evitare il conflitto ma semai con quello di programmare il prossimo conflitto assieme alla giustificazione della propria sopravvivenza “nei panni di….” generale, ministro, presidente… Nel testo di Flaiano la guerra è una scelta che non è mai in discussione, non è una extrema ratio, è piuttosto una necessità (anche economica) che ne prepara un’altra, con una sorta di effetto rebound.
Se vi ricordate ancora Colin Powell all’assemblea generale dell’Onu con la provetta di finta antrace in mano, prova schiacciante della pericolosità di Saddam, se qualcuno di voi si ricorda ancora il concetto di “guerra preventiva” di George W. Bush, se qualcuno coglie il paradosso della formula recente di “guerra esportatrice di democrazia” , se qualcuno prova fastidio a sentir parlare di operazioni militari e bombardamenti (con innumeri errori di bersaglio) battezzati “Enduring freedom” (a proposito è dal 2002 che c’è la guerra in Afghanistan e Bin Laden ancora manda in giro i suoi video, come Madonna) non può non trovare sorprendente, ai limiti della profezia, il testo di Flaiano messo in scena da Labit per il centenario della nascita del grande scrittore e umorista pescarese. Dal 26 gennaio al 7 febbraio la stessa compagnia, al teatro Due di Roma, mette in scena due farse di Flaiano: “La donna nell’armadio” e “Il caso Papaleo”.
Il regista Gabriele Linari ci spiega che al finale di questo secondo atto unico, riflessione amara sui ricordi di uno scrittore che si sveglia nella sua tomba, ha accostato un contributo sonoro tratto dagli archivi radiofonici nel quale Flaiano legge una sua favola intitolata “I ladri”. Era riferito a come andavano le cose in Italia ai suoi tempi: “…furono derubati dai figli e dai nipotini ma vissero felici e contenti”. Flaiano era un veggente: oggi il presidente del consiglio è imputato in vari processi e con lui adesso pure suo figlio, innocenti fino a prova contraria, (questo è laicamente sacrosanto e chi scrive è garantista) sempre che il processo non diventi in Italia troppo breve, tipo da non cominciare neanche, passateci l’umorismo, stiamo parlando di Flaiano. (Marialaura Carcano)