Last Updated on 30 Gennaio 2013 by CB
E’ online l’archivio dedicato all’opera di Giorgio Colli. Il pensatore che ha curato le opere di Nietzsche diffidava della parola scritta Invitava gli allievi a dialogare tra loro e con i grandi del passato. Ora rivive grazie a un sito.
Scrive Edoardo Camurri sul Corriere La Lettura del 27 gennaio:
«Prima regola di saggezza della vita: non farsi prendere dalla rabbia di fronte alla stupidità e alla debolezza degli uomini. Ciò reca grave danno» scriveva Giorgio Colli ne La ragione errabonda. Quaderni postumi, un testo a cura del figlio Enrico uscito per Adelphi nel 1982. Giorgio Colli è stato uno dei più grandi filosofi del Novecento, ma (consentitemi una certa brutalità) la stupidità e la debolezza degli uomini non hanno ancora permesso di riconoscerlo fino in fondo come tale. Colli giganteggia davanti a Heidegger, potrebbe dare del tu a Nietzsche e può concedersi il sovrano disprezzo (ma senza rabbia, anzi con sprezzatura) nei confronti di una contemporaneità ridotta spesso a essere luogo d’appuntamento delle menti ordinarie. Giorgio Colli, come ricordava il suo allievo e collaboratore Mazzino Montinari, è il filosofo meno convegnabile che ci sia. Ora, se le cose stanno così, potrebbe sorprendere che l’interesse per Giorgio Colli stia riemergendo; e non in Cina (dove ormai è diventata una moda giornalistica andare a caccia della fortuna postuma di alcuni grandi pensatori, per esempio Tocqueville e Leo Strauss) o negli Usa (dove serve sempre un nuovo strumentista per suonare la grancassa dell’Italian Theory) ma sul web, grazie a un sito rinato qualche mese fa e che, poco per volta, ma con un ritmo abbastanza impressionante, sta mettendo online gran parte dei materiali presenti nell’Archivio Colli di Firenze: giorgiocolli.it.
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Ecco un esempio della scrittura di Giorgio Colli nella nota introduttiva all’opera di Nietszche Al di là del bene del male (Adelphi).
Questo libro è anzitutto una sfida al cervello del lettore: tutti, anche senza saperlo, si sentono provocati. Di conseguenza è anche l’illustrazione più pertinente di quanto difficile sia parlare di Nietzsche. Per far questo il lettore deve accettare la sfida, deve – a parer suo – vincerla, e rovesciare poi contro Nietzsche la sfida stessa. Perché parlare di lui significa dare a intendere che lo si è capito, e poi inquadrarlo, sussumere il suo presunto pensiero sotto certi concetti.
Ma qui Nietzsche vuole veramente intessere dei pensieri, nel senso di sostenere certe opinioni, sviluppare certe dottrine? C’è da dubitarne, anche se nessuno in cuor suo vuole ammetterlo, perché allora si sentirebbe più insicuro, più inerme, e soprattutto soccombente. Perché se là c’è una dottrina, la si può combattere o accettarla; ma se non c’è, donde viene e che cosa significa quel turbamento, quel disagio, quel sentirsi scandagliati e giudicati? Ciascuno certo reagisce secondo il suo temperamento, e molti già si cavano dall’imbarazzo semplicemente buttando via il libro. Ma molti non possono farlo, o perché l’attrazione supera la repulsione, o perché sono vincolati in qualche modo a dare il loro giudizio. E così si ingrossa il fiume delle interpretazioni di Nietzsche. E se Nietzsche raccontasse soltanto se stesso, dietro il pretesto di paradossali scorribande del pensiero? Forse lui, quando discute di qualcosa, non mira a stabilire che cos’è questo oggetto, e neppure come va giudicato, ma vuole semplicemente raccontare che cosa sente di fronte a questo oggetto.
A lui interessa il modo di sentire – istintivamente, in base alla natura dell’individuo – rispetto alle cose del mondo e ai pensieri degli uomini. Per far questo ha bisogno di cambiare continuamente le prospettive, di far ruotare le cose osservate, in modo di stordire il lettore, di metterne alla prova l’istinto, di obbligarlo alla menzogna reticente, al rifiuto della provocazione. Il fascino di questo libro, forse, deriva dallo spettacolo di qualcuno che si mostra e fugge. Tutto, qui, si riduce a una dichiarazione di gusto, e il gusto, si sa, è la cosa più incomunicabile e meno confutabile. Nient’altro infatti significa la domanda, con cui Nietzsche intrappola il lettore: «Che cos’è aristocratico?». Il libro culmina in questa domanda finale, sapientemente preparata, suggerita da un caleidoscopio di discussioni all’apparenza rapsodiche. E per contro, che cos’è volgare? Il punto di partenza, per rispondere a questa duplice domanda, è illusionistico. Qui, nell'”Al di là del bene e del male”, la precisazione delle classi aristocratiche e delle virtù aristocratiche non è lo scopo principale, anche se Nietzsche lo pone in evidenza. Viene spiegato che cosa nel mondo della storia manifesta l’istinto aristocratico e quello volgare, per alludere alla natura degli istinti stessi. L’interiorità primitiva con cui un individuo sente il mondo che lo circonda, e reagisce in conseguenza, è ciò che interessa Nietzsche. La documentazione grossolana, macroscopica di questi
istinti, è la storia degli uomini. Ma il gusto aristocratico e quello volgare vanno poi rintracciati all’origine, prima che intervenga la mediazione del collettivo. Ed è allora che Nietzsche racconta, velatamente, se stesso. L’istinto del distacco, ecco, forse è questa la radice dell’aristocratico. Il dividersi, il contrapporsi a tutto quanto sta intorno, nel pensiero, nell’azione, il tenersi fuori, lontano, separato. Questo sembra il “pathos” sotterraneo che sta alla base di tutte le configurazioni del gusto aristocratico. «La profonda sofferenza rende nobili; essa divide». Il dolore è nel gusto di Nietzsche – ed è contro il gusto del mondo moderno. E il distaccarsi, nell’azione, porta al nascondersi di fronte agli altri: così la separazione non sarà turbata. Di qui l’insistenza, nell'”Al di là del bene e del male”, sul tema della maschera. Esaminando l’agire degli aristocratici, si scopre che esso esprime prima di ogni altra cosa il loro istinto del distacco, e lo manifesta con una molteplicità di maschere, che vengono fraintese dai volgari come gli unici, come i veri volti. I libri, le opere, le filosofie – se dietro c’è un aristocratico – sono soltanto maschere. Qui si cela il tranello teso da Nietzsche al lettore, ciò che nessuno si aspetterebbe da lui, e che anche in questo libro appare solo fugacemente. – Voi andate a caccia delle mie opinioni, delle mie dottrine; ma queste sono soltanto delle maschere! E quando parlo degli altri, non datemi retta. – Leggiamo addirittura che è un gesto aristocratico «il lodare sempre solo quando non si è d’accordo». Ma allora il biasimare può anche voler dire che si è d’accordo?
Qui non interessano più parole, opinioni, pensieri. Indicare la propria natura, conta solo questo. E neppure il bisogno di nobiltà interessa, lo dichiara lui stesso. Chi è aristocratico non sente il bisogno di esserlo, chi ne sente il bisogno non lo è. Infine la solitudine, il “pathos” caratteristico di Nietzsche, qui viene spiegata nella sua origine. La solitudine non è uno stato di abbandono, non è un risultato, non dipende dall’esterno, non è qualcosa che si patisce. La solitudine è istinto per la pulizia, come spontaneità, come qualcosa che nasce dalla natura. Dunque è in questo slancio – «sublime inclinazione e trasporto per la pulizia» – che Nietzsche esprime nel modo più fisiologico, epidermico, veramente immediato e anti-astratto, la sua risposta alla domanda «Che cos’è aristocratico?».
Nella solitudine come istinto di pulizia si traduce più concretamente – di fronte alla collettività degli uomini – quell’impulso al distacco, che è uno slancio radicale dell’anima aristocratica. «Ogni comunità rende in qualche modo, in qualche cosa, in qualche momento – ‘volgari’».
Ma una vita aristocratica è sopportabile? Chi si distacca sfugge al contatto, sfugge anche – attraverso la maschera – all’esser pensato, conosciuto, ma non è questo un abisso di annientamento? Chi si distacca a quel modo, però, getta uno sguardo attorno a sé, spia l’orizzonte, spera nella solitudine di scorgere un suo simile. In questa duplicità congiunta si svela compiutamente l’anima aristocratica; se così non fosse, che senso avrebbe, per il solitario, dichiarare il suo istinto, il suo gusto aristocratico, scrivere un “Al di là del bene e del male”? Questa rimane la grande speranza, mai spenta, l’attesa degli amici, e il libro si chiude con tale allusione, nel tragico, straziante epodo.
Prima ancora lo struggimento si era elevato all’allucinazione. Poiché i nobili non appaiono, gli amici, ecco che Nietzsche evoca il suo dio come compagno, amico, conoscitore. E’ un nuovo Dioniso quello che così ci appare di fronte, il dio che contrasta l’impulso al distacco di cui si parlava, pur essendo distaccato, il dio adescatore, tentatore. Per questo Nietzsche lo chiama ambiguo: soltanto qui è la risposta totale – in questa ambiguità – alla domanda «Che cos’è aristocratico?». Tale è ora il “pathos” dionisiaco: il venir risucchiati fuori di noi, sopra di noi, venir sedotti, proprio mentre ci si distacca da tutto. E Dioniso non è più la «volontà di vivere», e neppure la volontà di potenza, bensì «il genio del cuore», dove sta «la delicatezza nell’afferrare», la sapienza insomma.
Friederich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi
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