Last Updated on 28 Agosto 2018 by CB
Un photobook di prossima uscita ci mostra un lato interessante del Giappone. In questa intervista Pierfrancesco Celada racconta il suo progetto fotografico che visualizza la solitudine vissuta in un Paese normalmente raccontato (come la Cina) attraverso le sue moltitudini di individui organizzati e coesi. La solitudine che, come per un suo destino ossimorico, vive di più forse proprio dove è idealmente e fisicamente negata, in nome di un superiore disegno.

Intervista a Pierfrancesco Celada
Cosa significa Hitoride?
Hitoride (ひとりで), e’ una parola giapponese che letteralmente significa “da solo”, “isolato”.
Come ha scelto di raccontare questa dimensione intima dei giapponesi?
Ho visitato per la prima volta il Giappone nel 2009. Sin dal primo viaggio sono rimasto particolarmente attratto dal senso di “distacco” che era possibile percepire per le strade. In un primo momento ho pensato che le differenze linguistiche e culturali fossero alla base di questa sensazione di separazione; tuttavia è diventato presto evidente che gli stessi giapponesi non fossero in grado di interagire con successo. Nonostante la grande concentrazione d’individui e le tante possibilità d’interazione sembra che la società giapponese si stia spostando nella direzione opposta. Alcune persone faticano a comunicare, mantenendo contatto solo con un limitato numero d’individui, magari preferendo moderni sistemi di comunicazione. Ho quindi deciso di tornare e cercare di visualizzare questi concetti.
In certe foto le persone sembrano oppresse dall’architettura o dal vuoto circostante… E’ stato difficile scattarle senza turbare quelle solitudini?
La megalopoli Giapponese è una striscia di terra che si estende per centinaia di chilometri includendo città come Kobe, Osaka, Nagoya e Tokyo; qui, più di 180 milioni di persone vivono a stretto contatto, con un’architettura che è spesso imponente e quasi senza soluzione di continuità. Le mie giornate sono state caratterizzate da lunghe camminate attraverso il territorio urbano, per cercare quelle situazioni che visivamente potessero meglio rappresentare il concetto d’isolamento e oppressione su cui stavo ragionando. La difficoltà maggiore è stata forse quella di scegliere scarpe comode e dotarsi di molta pazienza.
Questo progetto, che ora è diventato photobook dopo aver avuto dei riconoscimenti importanti, si inserisce all’interno di un suo interesse più generale per le megalopoli…
Sono molto contento di presentare il lavoro sotto forma di libro. Hitoride. Literally by Yourself, Alone sarà pronto nei primi mesi dell’anno prossimo.
Il progetto è stato premiato nel 2010 con l’Ideastap & Magnum Photos Phtographic Award; questo premio mi ha dato la possibilità di tornare in Giappone più volte e completare questo primo capitolo di un discorso più ampio che vorrebbe descrivere le condizioni di vita nei più grossi centri urbani. Da ormai qualche anno, più del 50% della popolazione mondiale vive in aree urbane; le statistiche prevedono che nel 2050 più dell’80% della popolazione vivrà in centri urbani. Questo flusso d’individui dalle zone rurali verso le più grosse città, determinerà importanti modifiche della qualità dei rapporti interpersonali, influenzando fortemente la relazione tra l’individuo, l’ambiente e le comunità. Il mio interesse sta nel documentare questi cambiamenti; provando a rispondere a domande come: Qual è il nostro rapporto con gli altri e con l’ambiente? E’ ancora importante essere, o sentirsi, parte di un gruppo? Siamo soli in mezzo alla folla?
Il suo lavoro sulle megalopoli tocca anche la Cina. Come ha sviluppato questo interesse per l’Oriente? che differenze ha trovato nei due Paesi?
Al termine dell’ultima visita in Giappone sono salpato dal porto di Osaka verso Shanghai. Dopo un giorno e mezzo di navigazione mi sono sentito catapultato in un ambiente che, se dal punto di vista della concentrazione d’individui poteva essere comparabile alla megalopoli Giapponese; dal punto di vista delle dinamiche e del modo di vivere lo spazio pubblico si è dimostrato essere in fortissimo contrasto. Mi è sembrato naturale iniziare il secondo capitolo del progetto esplorando le Megacities Cinesi. Il nuovo lavoro s’intitola “People mountain, people sea”(人山人海); un antico detto cinese usato per descrivere una moltitudine.
Più in generale come si è avvicinato alla fotografia?
Mi sono avvicinato alla fotografia tardi; in una “vita precedente” ho lavorato in un centro di ricerca di una università Inglese. Ho iniziato a sperimentare con la fotografia da autodidatta, parallelamente agli studi, nel tempo libero; utilizzandola come valvola di sfogo nei confronti di un mondo accademico che trovavo particolarmente rigido. Presto la fotografia ha preso il sopravvento; i primi riconoscimenti mi hanno poi aiutato a fare il grande passo.
Secondo lei quali sono i vantaggi nel mostrare i propri progetti con un photobook?
Un libro fotografico ha vita propria, è soprattutto un oggetto fisico che ti permette di interagire con il lavoro attivamente e con le tempistiche dettate dalla propria sensibilità. Hitoride è stato pensato sin dall’inizio per essere presentato sotto forma di libro. Il lavoro di editing e realizzazione è particolarmente delicato; si è abituati a pensare che senza una casa editrice sia complesso arrivare fino in fondo. Tuttavia negli ultimi anni ci sono stati molti esempi di lavori fotografici self-published di alta qualità. Il vantaggio più grosso è offerto dai social networks; attraverso i quali è possibile creare e distribuire ad un ampio audience il proprio lavoro. A tal proposito ho appena lanciato una campagna di crowd-funding per la contribuire alla di “Hitoride, Literally by Yourself, Alone” prenotando la propria copia del libro.
