Last Updated on 31 Agosto 2005 by CB
Construction workers lunching on a crossbeam, New York, Charles C. Ebbets E’ il 29 settembre del 1932, undici operai pranzano su una trave a 244 metri d’altezza. Stanno lavorando alla costruzione del Rockefeller Center: l’America tenta di risollevarsi dalla Grande Depressione, siamo in pieno ‘nuovo corso’ di Roosvelt, neoeletto presidente degli Stati Uniti.
Irene Bignardi sceglie come copertina del suo libro una delle foto più famose che siano mai state scattate, una dei simboli della rinascita dell’America, che si prepara a diventare come in seguito ci sarebbe stata presentata da mass media, cinema e romanzi. Inizia così il suo viaggio da Melville a Brando, passando da Kerouac e Diane Arbus e tanti altri, attraverso gli splendori di Hollywood e le vie strette di Nantucket, tra i grattacieli di New York e le casette a schiera di Seaside, città natale di Truman, «quello di Truman Show».
Irene Bignardi sbarca nel Nuovo Continente per la prima volta a 25 anni, con in tasca pochi dollari e una «preziosa lista di indirizzi fornita da Tiziano Terzani». Forse non si aspetta che sarà il primo di una lunga serie di viaggi che la porteranno a vivere l’America come una sorta di «patria alternativa».
Alternando un’America vista e sperimentata a quella mediata dal fantastico mondo dello showbiz, la giornalista ci consegna una raccolta dei suoi reportage e dei suoi articoli, frutto di 25 anni di viaggi di lavoro e non, alla scoperta di un paese che è stato capace di creare «un’aurea leggendaria intorno a sè anche a una distanza abbastanza ravvicinata nel tempo».
Non solo cronaca, ma curiosità, aneddoti, pillole di cinema, arte,letteratura, retroscena svelati dalla penna di una donna che ama l’America, nonostante le divergenze politiche, e che ci racconta la sua «own private America». Ne risulta una piccola antologia, da leggere tutta d’un fiato prima e da consultare poi, magari perchè no, proprio come un «piccolo Baedeker» a caccia di itinerari nascosti e affascinanti.
Come la New York «dei primi, secondi e terzi piani dei palazzi incastonati nei grattacieli» sulle tracce di Stanford White, architetto di grido della New York d’inizio secolo, quello della Pierpoint Morgan Library e della sede di Tiffany’s sulla Fifth Avenue, forse più famoso per aver disegnato in stile rinascimentale spagnolo, il secondo Madison Square Garden, poi demolito nel 1925. E ancora più famoso per avervi trovato la morte – proprio sul roof da lui progettato – per mano del miliardario Harry K. Thaw, marito della sua amante, la show girl Evelyn Nesbit.
Da New York a Nantucket nel Massachussets, dove Melville mise piede solo dopo aver pubblicato il suo capolavoro Moby Dick. Lì, lo scrittore incontrò il suo Achab in carne e ossa nei panni del capitano Pollard alla cui vera storia si era ispirato per raccontare la caccia alla balena bianca. L’isola, comprata per 30 sterline a metà Seicento, conta oggi poco più di 7000 case e una manciata di negozi elitari e carissimi. Il suo passato baleniero è ormai confinato in un museo insieme allo scheletro di un grande capodoglio. Dell’isola da cui salpò la nave Essex, Pequod nel romanzo di Melville, destinazione Mari del Sud, restano i cestini intrecciati dai marinai per segnalare le secche, venduti a peso d’oro dagli artigiani locali. Persino gli ossi di balena, un tempo intagliati a bordo delle vecchie baleniere, oggi sono Made in Taiwan.
Era un marinaio anche Edwin S. Porter, che scrisse, diresse e montò uno dei primi film western della storia, ispirandosi alle rapine del leggendario fuorilegge Butch Cassidy. Il film portò al successo l’attore protagonista (che interpretava più personaggi nella stessa pellicola), ma del regista, cui pur si devono alcune invenzioni che influenzeranno per sempre il genere western, nessuna traccia, nessun tributo.
Ne La bellezza del terribile, Irene Bignardi racconta con partecipazione la storia di Diane Arbus, la «fotografa più originale», bella, giovane elegante, due figlie, un marito, un altro amore complicato, già leggendaria in vita per la stranezza della sua arte, ancor più leggendaria dopo il suicidio. Diane Arbus attraverso le sue foto «lancia strali a una società che aveva fatto della bellezza e della felicità la sua unica ragion d’essere»: nei suoi scatti, esseri strani, i freaks, in situazioni di normalità, e persone normali perse nella loro solitudine. Una bruciante critica del ‘sogno americano’ che, paradossalmente, la consacrerà al successo. E forse, la porterà alla morte a 48 anni, stroncata da «una dose letale di barbiturici, tagliandosi le vene, immergendosi vestita nella vasca da bagno».
«I rasoi fan male, i fiumi sono umidi, gli acidi lasciano il segno… tanto vale vivere», da Diane Arbus a Dorothy Parker, cronista culturale per il New Yorker e Vanity Fair, poetessa, scrittrice. Irene Bignardi ne ripercorre la vita seguendo le vie di Manhattan, sfondo di tutti i suoi scritti, ma mai menzionata, semplicemente data per scontata come se la vita non potesse essere altrove. Dal 214 della 72 strada West, dove oggi un signore di Taipei vende scarpe a poco prezzo, all’Hotel Algonquin che ospitò la Parker per anni, fino al Volney, 74esima, dove «la donna più spiritosa e amata della sua epoca» finì i suoi giorni in solitudine.
Il capitolo dedicato al più «bello e dannato» del cinema americano, il grande Marlon Brando, si intitola Una tragedia americana come il romanzo (1925) di Theodore Dreiser da cui è stato tratto un film che doveva dirigere addirittura S.M. Eisenstein per la Paramount, ma che divenne il capolavoro di J. von Sternberg. E con il personaggio di Dreiser, Marlon Brando ha sicuramente molte cose in comune:la rabbia di vivere, la voglia di scappare da un’infanzia violenta e umiliante per realizzare il sogno della propria affermazione sociale. In fondo Dreiser, nel 1925, quando Brando aveva appena un anno, aveva voluto descrivere ‘il sogno americano’, la politica del successo che porta a vedere come traguardo finale esclusivamente la piena realizzazione economica e che spesso conduce invece all’autodistruzione.
Marlon Brando, e la sua t shirt incarna il sogno americano: «Una carriera strepitosa», ma anche le marchette degli ultimi anni, «la sua inestinguibile sete di denaro», il «disprezzo per il suo stesso mestiere». Attraverso la parabola discendente della sua vita, Irene Bignardi ne ripercorre gli alti e i bassi, il destino di un uomo capace di rinascere dalle sue stesse ceneri. Lo ricorda eccessivo, istrionico, esibito, sempre bravo, «bravissimo», con il chiodo di pelle nera de Il selvaggio, o paraplegico (Uomini), irriconoscibilene Il padrino, con le rughe (Ultimo tango a Parigi, fino a quando ingrassato e a disagio non veste i panni del colonnello Kurz in Apocalypse now. L’ultima grande interpretazione. E poi di nuovo l’ambiguità, il nichilismo di una vita vissuta nevroticamente, di un lavoro fatto «per non avere avuto il coraggio di rifiutare denaro», racchiusi in una battutaccia gridata in televisione contro gli ebrei. Ecco un’altra, l’ennesima ‘tragedia americana’.
E’ tra queste storie che si snoda il ritratto dell’America com’era e com’è diventata, sempre in bilico tra sogno e tragedia, un’America ‘altra’, scoperta da Irene Bignardi nelle sue «esplorazioni occasionali dettate da percorsi giornalistici» e raccontata con partecipazione e ironia, malinconia e talvolta critica. Con distacco mai.
Per inciso, l’autore della foto di copertina è Charles C. Ebbetts. Digitando il suo nome sul più popolare motore di ricerca in circolazione, Google, mi segnala circa 13.800 pagine. Inizio a sfogliarle, mi offrono di comprare la foto, in diversi formati, rielaborata a colori, a prezzi diversi, persino in saldo. Nessuna traccia del fotografo, non una riga per dire chi era. Anche questo in fondo fa parte del sogno americano.
(Marina Tosto)
da Americani. Un viaggio da Melville a Brando
«Poi, nella vita di Brando, qualcosa deve essersi rotto nell´equilibrio tra un lavoro fatto, diceva lui, perché ‘non ho il coraggio morale di rifiutare i soldi’ e una vita vissuta nevroticamente con donne a ripetizione (e qualcuno dice anche uomini), mogli in sequenza, dodici figli tra legittimi e non sparsi per il mondo. Brando si ritira a Tetiaroa, un´isola del Pacifico dove ha anche costruito un paio di villaggi turistici di lusso. Vede il cinema con sdegno. Accumula disagio e peso. E accetta di fare i suoi pochi minuti di Apocalypse now per una cifra esorbitante. E’ l’ultima sua grande interpretazione. Dal profondo della montagna di carne in cui ha nascosto la sua bellezza, accumula parti sempre più assurde, cammei raccapriccianti, ruoli senza senso – e denaro.
Un tragico giorno suo figlio Christian uccide il marito della sorella. Cheyenne si impicca. Lui, il difensore delle cause difficili, se ne esce in televisione con una battuta sugli ebrei degna di Haider. Vive solo coi suoi fantasmi in una casa gigantesca. Sopravvive a se stesso. E´ veramente l´autunno del patriarca, è veramente ‘l’orrore’ che gridava il colonnello Kurz, è veramente una tragedia americana».
Biografia
Irene Bignardi scrive per La Repubblica dal 1976. Si è occupata della sezione artistica ed è stata critico cinematografico dal 1989 al 2000 quando è divenuta direttore del Film Festival di Locarno, incarico lasciato di recente. Dal 1986 al 1989 ha diretto il MystFest – l’International Film Festival del Film Noir. È stata membro della Commissione di Esperti della Mostra del Cinema di Venezia negli anni di Gillo Pontecorvo e, per tre anni, ha avuto la direzione di Notti Veneziane. Ha scritto per Gianfranco Mingozzi la sceneggiatura di Francesca Bertini, l’ultima diva e Bellissimo. Fra le sue pubblicazioni in riviste e libri, vi sono: Ieri, oggi, domani, cent’anni di cinema italiano (con Giorgio Gosetti e Fabio Ferzetti, Zefiro Giunti, 1995), Il declino dell’impero americano, 50 registi e 101 film (Feltrinelli, 1996), Memorie estorte ad uno smemorato, vita di Gillo Pontecorvo (Feltrinelli, vincitore del Premio Cianciano 1999 per la biografia), e Le piccole utopie (Feltrinelli, 2003, Premio Santa Marinella per la saggistica). Ha vinto il Premio Lino, il Premio Minerva e il Grolla d’Oro alla Carriera.