Last Updated on 11 Settembre 2022 by CB
L’inizio e la fine di questa storia sono sorprendenti come accade raramente in un’opera di narrativa, oltretutto di natura filosofica; nel senso che, più che dei fatti, vi è raffigurato (ossessivamente) il pensiero. Quello del protagonista che, immmerso in un suo interiore monologo, spesso si chiede cosa sarebbe potuto succedere, se non fosse successo quello che è successo. Disperdendo la realtà in un pulviscolo di possibilità che dà a ogni cosa la consistenza di un sogno, sospeso tra verosomiglianza e inverosimiglianza, illusione e disillusione.
Eppure non è un romanzo cerebrale; anzi. La sorpresa arriva fin dalle prime righe, con la morte di una donna, mentre l’uomo, che conosce appena, da lei invitato a cena per un imprevisto convegno amoroso in occasione dell’assenza del marito, vi assiste con assoluta passività; mentre un bambino di due anni dorme finalmente in un’altra stanza, dopo aver cercato in tutti i modi di non addomentarsi, forse per non lasciare la madre alle attenzioni dello sconosciuto. Mentre la televisione trasmette un famoso film in bianco e nero che l’uomo conosce perfettamente e segue senz’audio, disteso accanto alla donna agonizzante.
Da questa iniziale scena di morte, con le riflessioni sui modi in cui essa può manifestarsi, e sulle conseguenze sui vivi, il protagonista esce lentamente e faticosamente, comincia a raccontarla, a sottrarla dall’inversomiglianza. Incontra il marito, la sorella, il padre della morta, ed è un crescendo di scoperte; mentre anche la sua vita sentimentale – il ricordo della ex moglie e di ciò che potrebbe essere diventata – lo inghiotte nelle nebbie avvolgenti del dubbio e dell’incubo ricorrente, che a stento si dilegua davanti alla luce delle prove tangibili.
Eppure, per quanto intriso in una ontologica dissolvenza – a cui contribuisce la scrittura digressiva e ampia, che si srotola talvolta senza quasi punteggiatura e in balia, come la voce narrante, di un incantamento – il tema del libro non è la morte. La morte della donna, per quanto diventi poi significativa, è all’inzio una pura casualità.
Dice lo stesso Marias nella bella intervista di Francesca Borrelli (in Biografi del possibile, Bollati Boringhieri, 2005). «(…) In Domani nella battaglia pensa a me il tema è relativo alla consapevolezza di dover convivere con l’inganno. (…) Penso all’inganno come parzialità. E’ faticoso non poter essere mai la stessa persona: spesso non è questione di grandi inganni, ma del fatto che nessuno di noi si presenta a persone diverse nello stesso identico modo. Tra l’altro, è necessaria una grande memoria per essere coerenti con noi stessi, per ricordare cosa abbiamo trasmesso di noi alle diverse persone con le quali siamo entrati in contatto».
Questa storia non si dimentica tanto presto. Resta la sua frase/memento e leit motiv, tratta dal Riccardo III di Shakespeare, Tomorrow in the battle think on me, maledizione del fantasma della regina Anna sul re che l’ha fatta uccidere. Rimane impressa l’attenzione quasi maniacale del protagonista Victor per i dettagli, con la sua capacità di scivolare con maestria anche nel registro ironico e buffo (il ritratto dell’amico Ruibérriz de Torres, o la scena con il confuso regnante Only the Lonely).
Ci colpisce soprattutto la sua atmosfera malinconica, e l’idea di fondo che permea le infinite variazioni di Victor. «Di quasi nulla resta traccia, i pensieri e i gesti fugaci, i progetti e i desideri, il dubbio segreto, i sogni, la crudeltà e l’insulto, le parole dette e ascoltate e poi negate o fraintese o travisate, le promesse fatte e non tenute in conto, neppure da coloro a cui sono state fatte, tutto si dimentica o si estingue…».
Un pensiero che non è, tuttavia, nichilista come sembra. Afferma lo stesso Marias nell’epilogo e strenua difesa del romanzo, del bisogno umano dell’immaginario oltre che dell’accaduto e del reale: «(…)Insomma, noi persone forse consistiamo tanto in ciò che siamo quanto in ciò che siamo stati, tanto in ciò che è verificabile e quantificabile e rammemorabile quanto in ciò che è più incerto, indeciso e sfumato, forse siamo fatti in ugual misura di ciò che è stato e di ciò che avrebbe potuto essere».
(Cristina Bolzani)
da Domani nella battaglia pensa a me. Trad. di Glauco Felici, Einaudi – Super ET, Torino
«Nessuno pensa mai che potrebbe ritrovarsi con una morta tra le braccia e non rivedere mai più il viso di cui ricorda il nome. Nessuno pensa mai che qualcuno possa morire nel momento più inopportuno anche se questo capita di continuo, e crediamo che nessuno se non chi sia previsto dovrà morire accanto a noi. Molte volte si nascondono i fatti o le circostanze: i vivi e quello che muore – se ha il tempo di accorgersene – spesso provano vergogna per la forma della morte possibile e per le sue apparenze, e anche per la causa. Una indigestione di frutti di mare, una sigaretta accesa quando si sta per prendere sonno che dà fuoco alle lenzuola, o anche peggio, alla lana di una coperta; uno scivolone nella doccia – la nuca – e la porta del bagno chiusa a chiave, un fulmine divide l’albero in un grande viale e quell’albero cadendo schiaccia o stacca la testa di un passante, forse uno straniero; morire con indosso soltanto i pedalini, o dal barbiere con un grande bavaglino, al postribolo o dal dentista; o mangiando il pesce e trafitto da una spina, morire strozzandosi come il bambino la cui madre non è lì a infilargli un dito in gola per salvarlo; morire rasati a metà, con una guancia coperta di schiuma e la barba diseguale fino alla fine dei tempi se nessuno rimedia e per pietà estetica non conclude il lavoro; per non citare i momenti più ignobili dell’esistenza, i pià nascosti, di cui non si parla mai se non durante l’adolescenza, perché al di fuori di questa non c’è il pretesto, anche se c’è poi chi li sbandiera per apparire arguto senza ruscirci mai. Ma quella è una morte orrenda, si dice di certe morti; ma quella è una morte ridicola, si dice anche, sghignazzando. Lo sghignazzo viene fuori perché si parla di un nemico finalmente estinto o di qualcuno distante, qualcuno che ci ha fatto uno sgarbo o che abita nel passato da molto tempo, un imperatore romano, un trisavolo, oppure qualche potente nella cui morte grottesca si vede soltanto la giustizia ancora vitale, ancora umana, che in fondo desidereremmo per tutti quanti, noi compresi. Come mi rallegro di questa morte, come mi dispiace, come la celebro. (pp. 3-4)