Last Updated on 16 Settembre 2004 by CB
Non ho mai conosciuto nessuno capace di tanta attenzione, e, nello stare attento, di tanta intensità. A tutti, e a tutto, John Berger dedica una capacità di ascolto che si manifesta non solo negli occhi, ma in tutto il viso e, ancora più in là, nell’atteggiamento e nella tensione del corpo. Se un’antenna ricevente avesse una forma umana, potrebbe essere rappresentata da lui.
A John Berger Torino, attraverso l’iniziativa di Atrium a fine maggio 2004, ha dedicato quattro giornate, per farne conoscere a un pubblico vasto la poliedricità, la capacità di spaziare in tutte le forme artistiche, da quella narrativa a quella di sceneggiatore cinematografico, critico, pittore e disegnatore.
L’hanno circondato di amici di vari paesi, di esperti e di conoscitori della sua opera, di sinceri ammiratori, e l’hanno impegnato in un calendario fin troppo fitto, ogni giorno, dalla mattina presto alla sera tardi. L’ho seguito per un giorno e mezzo e non l’ho mai visto distratto, neppure per un attimo. In quattro ore di lezioni, interventi e dibattito alla scuola Holden, quella che Alessandro Baricco ha creato per dar senso e corpo alla formazione e al lavoro di scrittore, è riuscito a seguire ogni parola di chiunque intervenisse, trovando nei discorsi e nelle domande di ciascuno elementi di interesse e di utilità generale.
I titoli di alcuni dei suoi libri richiamano con insistenza il tema dello sguardo: Modi di vedere, Questione di sguardi, Sul guardare. Lo sguardo suo, quello della persona John Berger, è sempre diretto agli occhi e alla figura di chi parla, come volesse scavare dentro e andare al di là delle parole, penetrarne il senso, comprendere in profondo chi comunica con lui. Ciascuno, qualunque età, grado di cultura, capacità di espressione abbia, merita per lui lo stesso ascolto intenso, senza quelle ombre di giudizio, di valutazione, di disinteresse che spesso offuscano la comunicazione e che dà all’ascoltatore il senso del rispetto che si può avere per ogni persona. Così si comprende come possa vivere in un piccolo paese delle Alpi francesi e ricavare da lì storie di vita degne di essere raccontate. Lo guardavo, seduto a quel tavolo del Museo del cinema a Torino, a mezzanotte inoltrata, e poi alla cattedra dell’Holden, ne ammiravo la capacità di attenzione e mi tornavano alla mente tanti politici, professori, scienziati, letterati nelle stesse situazioni: attenti e magnetici quando è il loro turno, o quando parlano i pochi amici o avversari che essi stimano al proprio livello, e poi persi con lo sguardo nel vuoto o nei chiacchiericci da tavolo della presidenza, nella scrittura autistica o nella lettura dei giornali quando è il turno degli altri.
Anche lui ogni tanto guarda nel vuoto, ma solo quando a parlare tocca a lui, e lo fa per cercare da qualche parte nello spazio intorno a sé le parole più giuste, per ascoltare ancora l’eco dell’altro e per trovare dentro di sé il modo di esprimersi e farsi capire al meglio. Per nulla turbato dal silenzio, o dall’esitazione, o dal mostrare quella ricerca e quella fatica del discorso, di cui parla anche in questa intervista.
L’intervista di Luciano Minerva
«Sei una buona passeggera, è il minimo che si possa dire. Perché ce ne sono di cattive? Molte. Non si fidano del guidatore. Non si può andare in moto se non ci si lascia andare». E’ un brano da un racconto di Fotocopie. E qui a Torino c’è una mostra di suoi disegni con questo solo tema. Cosa rappresenta per lei disegnare le moto? E’ anche questo un lasciarsi andare?
E’ difficile spiegarlo perché le passioni sono inesplicabili. Ho la passione della moto da quando avevo diciotto anni e ce l’ho ancora. Il problema non è tanto guidare una moto, ma è il passeggero che sta dietro di te. E’ qualcosa di molto speciale perché la sua vita è davvero nelle tue mani e questo produce non un vero senso di responsabilità, ma una specie di senso di unità. Il fatto è che l’unità è composta idealmente da quattro elementi: il passeggero, la moto, la strada e te. E’ un quartetto.
E che cosa ricerca nel disegnarla?
Non so veramente. E’ una risposta che deve dare chi guarda. Sono venuto in questa galleria e queste immagini, che non ho mai visto prima su una parete (le ho viste solo mentre li dipingevo), eccole qui. Le guardo in questa situazione e sono del tutto sorpreso. Ne sono sorpreso anche se le ho fatte io. In qualche modo ho la sensazione che non mi appartengano, appartengono all’esperienza di guidare una moto. Ci si possono riconoscere moltissime esperienze di motociclisti, ed è un’esperienza che è insieme molto fisica e molto metafisica, perché la morte è sempre presente, e c’è anche una questione di volontà, perché la cosa straordinaria è che qui c’è la connessione tra il tuo guardare mentre disegni e guardare mentre guidi. Perché quando guidi tu vai, e tutta la macchina va, dove tu guardi. Se guardi qualcosa che vuoi evitare, la prendi, se guardi oltre la eviti.
Lei racconta storie minime, di gente comune. Ma poi queste storie non sono più minime quando riesce a farle vedere. In Una volta in Europa la donna che racconta lo fa da un deltaplano, da tremila metri di altezza. Quanto ha bisogno, per le sue storie, di una visione panoramica, aerea delle cose?
A me sembra che ogni storia che riguarda una vita non sia una piccola storia, non esistono piccole storie in quel senso. Quando provi a raccontare una storia devi fare contemporaneamente due cose, ed è quasi una contraddizione: perché devi avvicinarti il più possibile all’esperienza vissuta di quella storia, arrivarle molto vicino e nello stesso tempo devi cercare di mettere questa storia non sotto il cielo, ma in tutta la storia delle storie, e la storia umana comincia con le storie. Così in tutti i racconti è necessario avere questa visione da vicino e la visione panoramica. In questa storia particolare che lei ha citato, il racconto da un deltaplano ha reso più facile la scrittura: e questo è un caso che non avevo per nulla programmato, perché si tratta di una vecchia contadina, che conoscevo molto bene, con il suo gregge e le sue mucche. Ma un giorno un deltaplanista le ha chiesto per gioco: «Quando vieni con me?» E con sua enorme sorpresa lei gli ha detto «Quando?» «Quando vuole.» «Oggi.» Lei non aveva mai preso un aereo, non aveva mai lasciato la terra, andò con lui, trovò quest’esperienza favolosa e la ripetè due o tre volte. Aveva quasi settant’anni, con le sue capre, le sue oche e le sue mucche e fu lei a raccontarmi la storia, e quando me la raccontò ho detto subito: ecco! L’ideale per raccontare la grande storia della sua vita: stare appesa a un deltaplano.
«Avrei preferito tornarmene all’aria aperta ma volevo che lui non si dimenticasse immediatamente di me. E così ho cominciato a raccontargli una storia che riguardava mia nonna.» E’ uno dei tanti modi con cui lei introduce un suo racconto. Come nasce una storia, nella mente del narratore?»
Credo che le storie comincino spesso in un modo del tutto inatteso. Quando le storie sono scritte hanno un certo sapore. Ma spesso quando cominciano sono contraddittorie o sorprendenti. Per esempio, pochi giorni fa, come succede a chiunque altro, stavo leggendo la storia di quello che è successo a Rafa, in Palestina, nei campi di rifugiati con le case abbattute… abbattute… abbattute. E allora mi è venuta in mente questa immagine, questa volta non stavo scrivendo, ma stavo disegnando, ma l’immagine che le voglio mostrare nell’ascoltare questa notizia probabilmente non è quella che si aspetta (Apre il foglio con il disegno con un fiore). Lei potrebbe dire… ‘ah, lei ha scelto di dipingere un fiore perché questa è una consolazione per l’orrore a cui stava pensando’, ma le cose vanno in modo diverso. Voglio dire: una settimana prima, ero a Bologna dove stavo facendo un disegno di una scultura del XV secolo di Maria Maddalena, quando vede per la prima volta il corpo morto di Cristo. (Apre un altro foglio con il disegno di Maria Maddalena). E mentre disegnavo questo, pensavo alle donne e alle famiglie di Gaza: scultura del XV secolo… e io penso a Gaza. Gaza… quando ci pensavo, pensavo a questo. E’ questo tipo di miscela che si crea nell’immaginazione, che determina l’inizio di un racconto.
Quindi la storia è l’insieme inatteso di due elementi?
Sì perché questa imprevedibilità… viene dalla vita. In realtà tutte le storie parlano dell’inatteso e di come dargli un senso.
Così, mostrandoci questi disegni, lei ci ha detto perché, come storyteller, che usa vari strumenti, anche senza la parola o prima della parola. Lei scrive: «E’ stato lì a scuola che ho imparato a guardare alle parole come una cosa scritta sulla lavagna.» Le parole sono solo una piccola parte del racconto? E quando arriva la parola scritta?
Provo a rispondere. La lotta per trovare il modo di raccontare una storia è, naturalmente, una lotta con le parole. Ci sono scrittori che non hanno questo problema, le parole li aiutano. Ci sono altri scrittori, come me, che devono combattere con le parole. Lottano con loro, un po’ come i diavoli con gli angeli. Ma è molto curioso perché tu fai questo ma nello stesso tempo qualcosa da qualche parte, la totalità del linguaggio con cui stai scrivendo, questa lingua madre, che è un grandissimo continente senza fine, è accanto a te. Ne sei cosciente, ma la lotta è per trovare il modo che può interferire di meno con l’esperienza che viene descritta. E’ un po’ come il principio di indeterminazione di Heisenberg. Perché l’osservatore dell’esperimento molto spesso modifica le condizioni, crea un disturbo sull’esperimento stesso. E lo stesso accade per la scrittura: le parole possono davvero interferire con la verità dell’esperienza. E la lotta è per trovare parole che generino il minimo di interferenza: se è così le parole saranno accolte con la massima ospitalità dal lettore.
Cos’ha provato nel suo villaggio in montagna a vedere per la prima volta l’immagine delle torture in Iraq?
Prima di tutto… forse devo fare una piccola correzione. Per tanti anni ho avuto molti amici in Cile, compreso ad esempio il poeta Ariel Dorfman che scrisse una serie di poesie sulla tortura, e io fui uno dei primi a presentarle in Europa. I cileni che torturarono i loro stessi concittadini furono istruiti almeno in parte dall’intelligence americana. Ho un amico turco che mi ha parlato molto della tortura. Avevo un amico che aveva fatto dei disegni sulla tortura, ora è morto. Il modo in cui sono state presentate le fotografie delle torture in Iraq è stato ovviamente incredibilmente choccante per me come per chiunque altro. Ma non è stata una rivelazione totale. E credo che oggi, proprio in questo momento, sebbene pensi realmente a che cosa queste immagini significhino e a come ci colpiscano, è anche incredibilmente importante ricordare che queste cose accadono. Dobbiamo porci la domanda: chi è il responsabile, quanto siamo responsabili noi stessi e dove sono le responsabilità, quando accade tutto questo? Questa mi sembra una domanda molto più importante che la nostra reazione all’orrore.
La prigione è uno dei temi che lei tratta più volte. E’ stato in numerose carceri a raccontare storie e sentire raccontare storie. Cita il poeta turco Nazim Hikmet, per cui la prigione era un punto piccolo da cui si poteva evadere con la poesia. Come può permettere il racconto di uscire, di fuggire dalla prigione?
Questa è una domanda che deve fare ai prigionieri, non a me. Ma quello che l’ascolto di una storia fa o può fare è cambiare l’unità su cui si misura il nostro tempo. Una delle cose più dure per un prigioniero è il controllo sul suo tempo, minuto per minuto o ora per ora; questo controllo può penetrare davvero nell’immaginazione e nello spirito del prigioniero. Una storia è una liberazione da questo, può essere una liberazione. C’è un film, Il bacio della donna ragno, che riguarda proprio la sua domanda e che dimostra in un modo incredibilmente vivido e convincente cosa succede a una storia in prigione. Un’altra cosa che è incredibilmente dura nella vita in prigione è la mancanza di privacy, perché tutte le prigioni nel mondo sono sovraffollate, alcune più di altre. E una storia non cambia solo il tempo ma può anche creare uno spazio privato. O, come nel film di cui dicevo, si può anche creare uno spazio di due o tre persone. Molto spesso in prigione, un prigioniero bravo nel raccontare storie e che magari non è capace di fare molto altro, ottiene una specie di condizione privilegiata, solo perché sa raccontare storie, che possono essere condivise.
Vedi anche: John Berger: Sul guardare