Last Updated on 20 Gennaio 2012 by CB
A proposito del rapporto tra fotografia e letteratura, si ricordava in un precedente post quella assai decadente citata nella Montagna magica di Thomas Mann: i raggi X del torace di Clawdia Chauchat, malata di tubercolosi. Una foto custodita come un feticcio dal protagonista Hans Castorp. Certo nel romanzo che è di per sé il rovesciamento di un’intenzione – per Mann doveva essere all’origine un breve racconto facile e umoristico – e che si sviluppa invece come l’allegoria dell’Europa devastata dalla Grande Guerra, questa inversione del codice amoroso – per lui a essere oggetto di idealizzazione è la malattia, il corpo sofferente – è in armonia perfetta con il resto. Lo è con il sanatorio svizzero – sorta di mondo parallelo lontano dal frastuono della battaglia e dalla banalità di una dimensione borghese in declino – e che diventa per Castorp un affascinante viaggio all’Ade, motore della sua metamorfosi.
A rendere magica la montagna è lei, la paziente Clawdia Chauchat, che assomiglia al primo amore della sua vita, risalente a tempi lontanissimi e sepolto in un profondo oblio: l’amore omoerotico per il compagno di scuola Pribislav Hippe. Nei sottili occhi chirghisi di Clawdia, nei suoi alti zigomi slavi, nella su voce velata egli riconosce lo stigma corporeo di quel precoce oggetto d’amore. La figura snella, piuttosto efebica, di Clawdia conferma la natura androgina del suo amore. (M. Neumann, La montagna magica, Meridiani Mondadori). Poiché Clawdia è malata, amore e morte nel giovane tendono a coincidere.
Ma il punto decisivo è che la stessa Clawdia Chauchat, attraverso la quale egli ha appreso a conoscere il romantico fascino erotico della morte, diventa per lui l’immagine sublime della vita stessa, che gli appare, tra il sonno e la veglia, mentre legge i suoi libri di anatomia, nel silenzio della notte di Davos. (L. Crescenzi, ibid.) Clawdia Chauchat lo smuove dalle sue certezze e lo incammina in un ricco viaggio spirituale, al cui termine il giovane uomo sarà pronto per buttarsi nell’incongruo, tetro teatro bellico.
Ecco il momento del loro incontro, nel romanzo.
La smilza e anziana zitella sorrise commossa.
“Quella è Madame Chauchat” spiegò – E’ così sciatta. Una donna incantevole.” E nel dir così il rossore setoso sulle guance della signorina Engelhart si accrebbe di una sfumatura… come accadeva invero ogni volta che apriva bocca.
“Francese?” chiese Hans Castorp, austero.
“No, è russa” rispose la Engelhart. Francese o di origini francesi è, forse, il marito, ma non lo so con esattezza”.
Era forse quello laggiù, domandò Hans Castorp ancora infastidito, indicando un signore con le spalle cascanti seduto al Tavolo dei Russi Buoni.
Oh, no, ribattè l’insegnante e disse che non si trovava qui. Non era mai venuto, e qui, aggiunse, nessuno lo conosceva.
“Dovrebbe chiudere la porta come si deve!” esclamò Hans Castorp. “La fa sbattere ogni volta. Che razza di maniere”.
E poiché l’insegnante incassò quel rimprovero con un sorriso umile, quasi fosse lei la colpevole, di Madame Chauchat non si parlò più.