Last Updated on 28 Agosto 2018 by CB
«Amo moltissimo il cinema di Max Ophüls. Lo metto al primo posto. Mi piacciono moltissimo i suoi inusuali movimenti di macchina che sembrano andare avanti all’infinito, in scenari da labirinto», arrivò a dire Stanley Kubrick di lui. Oltre ai movimenti di macchina non sono l’unica abilità di Max Ophüls. C’è anche la sua fotografia speciale, che infittisce di mistero scene e piccoli dettagli. A proposito dei quali una volta disse: «Dettagli, dettagli, dettagli! Il più insignificante, il più discreto è spesso il più suggestivo, caratteristico e addirittura decisivo. Dettagli esatti, un picco nonnulla fatto con arte, creano l’arte».
Se Le plaisir ha i movimenti di macchina forse più complessi nella storia del cinema, il successivo Madame de… da un racconto di Louise de Vilmorin, mostra il curioso percorso di alcuni gioielli che, passando di mano in mano, ritornano al punto di partenza, in una specie di girotondo che offre al regista l’occasione di descrivere l’incertezza dei sentimenti e delle fortune con eccezionali movimenti della cinepresa, la cui eleganza nasconde ancora una volta il gioco amaro della vicenda raccontata.
Ophüls trasforma il senso quasi decadente dei gioielli in qualcosa di consapevole e profondamente personale. Nel suo stile levigato ci mostra un mondo stravagante nel quale gli orecchini diventano simbolo della tragedia nazionale. Nella famosa sequenza del ballo riesce a suggerire prima l’allegria della danza di Madame De con il suo amante (Vittorio de Sica), poi la profondità del loro amore reciproco, e infine il disastro imminente. E la scena finisce nel buio. Insomma il giro di valzer e la storia all’apparenza frivola del film, descrive uno stile – con le parole dello stesso Ophüls – solo superficialmente è superficiale. Il tutto con Christian Matras come magistrale direttore della fotografia.
«Permettimi, amore mio, di raccontarti tutto, tutto dal principio; ti prego, non stancarti di dovermi ascoltare per un quarto d’ora, di ascoltare chi per una vita intera non si è mai stancata di amarti». In un lungo triste monologo in forma epistolare una donna scrive il suo amore assoluto per il famoso romanziere R., che riceve la lettera nel giorno del suo quarantunesimo compleanno. «Ieri il mio bambino è morto», comincia. E poi: «Adesso al mondo mi sei rimasto solo tu, tu che di me non sai nulla». In Lettera di una sconosciuta di Stefan Zweig lo scrittore viennese leggendo parole già di per sé drammatiche scopre che la sua autrice è già morta; e che proprio la morte le permette questa confessione. La scrittura elegiaca di questa operina compie il prodigio di farla vivere ancora, anzi di farla vivere per la prima volta nella mente di chi lei ha amato. Lei gli racconta di averlo visto da bambina, sua vicina di casa, e di come quell’immagine abbia fatto germinare un amore durato quindici anni, «con la dedizione di una schiava, di un cane». Un amore che declina al parossismo la capacità di forgiare un Altro, e oscilla tra fantasia di annullamento nell’Altro – amore «disperato, umile, sottomesso, attento e appassionato» – e lo struggente desiderio di essere ‘riconosciuta’. Ma il ‘riconoscimento’ non avviene. Passano gli anni, loro due si rivedono, quando lei è adolescente e donna. Hanno qualche notte d’amore, ma R. non la riconosce. Del resto il volto di una donna, scrive lei con improvviso e lucido disincanto, è per un uomo «solo lo specchio di una passione, di un gesto infantile, di un moto di stanchezza, e svanisce altrettanto facilmente di un’immmagine allo specchio». Così, tra un amato narciso che non sa vedere oltre la sua immagine, e un’amante persa nella creazione labirintica e mentale suscitata dalla sua passione, lo scrittore reinventa in modo iperbolico l’archetipo dell’amore non corrisposto.
Ophüls nel film Lettera da una sconosciuta – interpretata da Joan Fontaine – rende l’intreccio più melodrammatico. La scena memorabile ripropone la circolarità tipica del suo cinema: il finto viaggio in treno al Prater, in cui Lisa è finalmente felice.
Ma è solo un giro in giostra. Una finzione. Magica, come il cinema.