Last Updated on 20 Aprile 2021 by CB

Scintillante e malevolo Maugham, anche in questa raccolta di racconti – che si aggiungono alle piacevolissime Storie ciniche – incontriamo con la tipica scrittura ironica e distaccata i personaggi più eccentrici e inquietanti – spesso donne – ma rivestiti della patina rassicurante delle consuetudini sociali più trite, in ambientazioni ricche di mobili Chippendale. La sorpresa è sempre dietro l’angolo. Per esempio nel racconto L’impulso creativo nessuno sospetterebbe che questo nasca dalla fuga finale con la cuoca messa in atto dallo stolido marito della tirannica scrittrice Mrs. Forrester, indiscussa maestra del punto e virgola.
Il mondo letterario a lui ben noto è preso di mira, con le sue molte velleità e vanità e i pochi talenti; se non quando è la vita stessa che sembra dettare l’opera, come per la moglie del colonnello, insignificante fino a quando pubblica un’ardita storia in versi di una passione adulterina che diventa a sorpresa best seller. Si direbbe che il personaggio che piace di più a Maugham sia quello scrittore che, dopo anni di ricerche sul libro storico che intende scrivere in ascetico ritiro a Capri, muore appena prima di cominciarne la stesura. Unico modo per evitare “l’amara delusione dello scopo raggiunto”, conclude il narratore.
Maugham d’altra parte alla fine della sua vita era molto disilluso, nel ritratto che ne fece il nipote Robin in Conversazioni con zio Willie. (Anche Robin peraltro era scrittore originale de Il servo da cui Losey trasse il suo capolavoro con Dirk Bogarde). “Vorrei non aver mai scritto una parola – confida ormai 91 enne al nipote – me ne è venuta solo infelicità… Chi mi ha conosciuto bene ha sempre finito per odiarmi…” Interessante quando il nipote parla della balbuzie dello zio: “Ma sulla vita di Willie l’influenza maggiore l’ebbe la balbuzie. (…) È probabile che se si fosse liberato della balbuzie Willie non sarebbe stato un agnostico; è quasi certo che senza la balbuzie non sarebbe stato uno scrittore; probabilmente avrebbe fatto l’avvocato, come i suoi fratelli. La balbuzie lo rese riservato, lo costrinse a rimanere uno spettatore, fece di lui quell’osservatore distaccato della vita che divenne la prima persona singolare dei suoi libri. La balbuzie rese la sua prosa vigorosa, vivace e concisa, sciolti e efficaci i dialoghi dei suoi lavori teatrali. Forse è a quell’impedimento che Willie dovette la sua fama“.

«Dell’uomo in carne e ossa lo scrittore prende solo quello che gli serve. Lo usa come un gancio a cui appendere le proprie fantasie». Così scrive in una sua rara dichiarazione di poetica. Eppure i protagonisti delle sue storie hanno fatto spesso arrabbiare certi suoi contemporanei convinti di esserne il modello.E’ successo con l’attrice Julia protagonista di Theatre – nella quale si sono identificate molte primedonne inglesi, offese dalla sua intrinseca natura fingitrice – e anche con l’Edward Drieffeld dello Scheletro nell’armadio. Molti hanno riconosciuto in lui lo scrittore Thomas Hardy, ritratto con il tipico, pacato ma non per questo meno tagliente, sarcasmo (chissà perché l’identificazione, nota Maugham divertito, scatta sempre quando dei personaggi si descrivono i difetti). Lo scheletro nell’armadio è un romanzo movimentato dalle continue sorprese e dalle diverse prospettive temporali. Si alternano il presente, il passato remoto e il passato più recente. A ogni avvicinamento si svela un segreto, si scopre un aspetto in ombra del protagonista, il celebre Edward Driffield – scrittore ignorato in un tempo non troppo lontano – sposato a una ex-cameriera, la sessualmente esuberante, l’affascinante e vitale Rosie.
E’ lei al centro della storia, lei che conserva il segreto, svelato solo nelle ultime pagine, che darà un nuovo senso retrospettivo alla storia. La trama è scorrevole, divertente, parte con un tono scettico – «Ho notato che quando qualcuno ti telefona, e non trovandoti lascia detto di richiamarlo appena torni perché è una cosa importante, la cosa di solito è più importante per lui che per te» – e finisce con tenerezza. Ma non cade mai nel sentimentalismo, anche perché nel ritmo incalzante del romanzo Maugham inserisce delle digressioni – sull’arte, la bellezza, la politica, la fama – che ne rafforzano il clima (britannico) di ironico distacco. «Trent’anni fa nei circoli letterari Dio era in gran voga. Credere era di buon gusto, e i giornalisti Lo usavano per decorare una frase o far quadrare un discorso. Poi Dio si è eclissato (curiosamente, insieme al cricket e alla birra), ed è arrivato Pan…»
Maugham è bravissimo nel descrivere il ‘dietro le quinte’ vanesio e un po’ patetico della notorietà. Come quando disegna il simpaticissimo mediocre Alroy Kear, che si è guadagnato una posizione con soave opportunismo e instancabile presenzialismo; o la talent-scout Mrs Barton Trafford, che dal suo salotto decide chi sale e chi scende nell’Olimpo degli scrittori à la page; o la seconda moglie di Drieffield, severa e rinsecchita vestale della fama del marito, nonché ex infermiera del defunto. O come quando, con amarezza da post- vittoriano, afferma la sua teoria che «la longevità è genio.» «Dopo matura riflessione sono giunto a concludere che la vera ragione del plauso universale che conforta gli anni estremi dello scrittore longevo è che le persone intelligenti, passata la trentina, non leggono più niente. Man mano che invecchiano, i libri letti in gioventù si illuminano della luce di quell’età, e di anno in anno aumenta il pregio che essi tributano a chi li ha scritti. Costui, naturalmente, deve andare avanti; deve mantenersi in vista. Non gli giova pensare che basta scrivere un capolavoro o due; a questi deve fornire un piedistallo di quaranta o cinquanta opere non particolarmente notevoli. La cosa richiede tempo. La sua produzione deve essere tale che se non gli riesce di conquistare il lettore col suo fascino, egli possa almeno stordirlo col suo peso».
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Non riuscivo proprio a capire perché Louise si ostinasse a volermi frequentare. Le ero antipatico e sapevo per certo che alle mie spalle, in quel suo modo così delicato, non perdeva occasione di dire qualcosa di spiacevole sul mio conto. Era troppo raffinata per fare apprezzamenti diretti: le bastava un’allusione, un sospiro, un rapido gesto delle belle mani per far capire cosa pensasse. Era maestra della lode insincera. Ci conoscevamo molto bene, da venticinque anni, ma non credo che questo avesse un qualche peso: mi considerava rozzo, brutale, cinico e volgare. E allora perché non mi lasciava perdere? Invece mi tartassava: mi invitava continuamente a pranzo e a cena, e una o due volte all’anno anche a trascorrere un fine settimana nella sua casa di campagna. Ma alla lunga scoprii le sue ragioni. Nutriva l’odioso sospetto che non la prendessi sul serio, e per questo cercava la mia compagnia: non poteva sopportare che io, e io soltanto, la considerassi una commediante. Non avrebbe avuto requie finché non avessi ammesso il mio errore e la mia sconfitta. Forse intuiva che io vedevo dietro la sua maschera e, siccome ero il solo a non cascarci, quella maschera si era prefissa di farmela accettare. Non ebbi mai la certezza che la sua fosse un’impostura totale; mi chiedevo se ingannasse se stessa in maniera assoluta come ingannava il mondo, o se nel suo intimo vi fosse una scintilla divertita. Se c’era, forse Louise era attratta da me, come si attraggono tra loro i furfanti, perché eravamo gli unici a condividere quel segreto. (da Storie ciniche).