Last Updated on 16 Aprile 2021 by CB

L’aforisma è di Ivy-Compton-Burnett, scrittrice inglese non a caso definita snob da uno dei suoi primi autorevoli estimatori, Giorgio Manganelli. Una massima che riecheggia quella di Oscar Wilde – «Quando la gente è d’accordo con me mi sembra sempre di essere nel torto» – e che dimostra come da quelle parti i ci siano sempre stati grandi maestri della spiritosaggine laconica.
Dice Auden, che «gli aforismi sono essenzialmente un genere di scrittura aristocratico. L’aforista non argomenta, asserisce; e implicito nella sua asserzione è il convincimento che egli sia più saggio e più intelligente dei suoi lettori». Un libro di qualche anno fa, Teoria e storia dell’aforisma, racconta le radici dell’aforisma, ben prima delle Maximes di Rochefoucauld e di quella scuola francese che arriverà a Valery e Cioran; la culla del genere è la brevitas greca dei presocratrici e degli stoici. Questi ultimi passarono dall’aforisma ‘per estrazione’ – la citazione da un testo precedente – all’aforisma ‘per creazione’. La forma breve culmina in Nietszche, e in Italia ha esempi quali lo Zibaldone di Leopardi, per arrivare alla modernità ‘classica’ di Ennio Flaiano. Nell’epoca digitale l’aforisma è stato rilanciato dai social media come forma prediletta di racconto quotidiano, ma anche come espressione di odio, di risentimento e rabbia. Agli haters direbbe Karl Kraus, che l‘odio deve rendere produttivi, altrimenti è più intelligente amare.