Non è un Paese per Dandy

Last Updated on 4 Luglio 2010 by CB

Un libro che mancava, perché rende giustizia allo spessore filosofico di una corrente del decadentismo della quale si è spesso preferito evidenziare l’aspetto estetico. Siccome poi gli italiani sono negati per il dandysmo – come non simpatizzare con la boutade dell’editore di Excelsior 1881, che firma l’introduzione? – il libro è a maggior ragione una istruttiva carrellata di molti classici di letteratura e filosofia, visti sotto la lente del dandysmo. 

 “Purtroppo è vero: nessuna persona può influenzarne un’altra. E infatti l’Italia è un Paese di pose, ma non è un Paese per Dandy. È un Paese per snob, piuttosto, che stanno al Dandy come le beghine a Santa Teresa d’Avila. Ed è un Paese per gagà, che dei Dandy sono imitazione appariscente, e dunque cialtronesca. Gaga non è Dada, insomma.
Eppure, proprio in Italia, il Dandy ha successo. Affascina e seduce. Tanto da essere diventato addirittura ‘moda’. Ossia proprio ciò che il Dandy più di tutto aborre, e rifugge”.

In Italia si è conosciuto il dandysmo in gran parte grazie al classico di Giuseppe Scaraffia, Il dizionario del dandy, racconto in trentotto voci della sintassi del dandy, attraverso famosi personaggi dell’Otto e Novecento. Invece questo saggio sottolinea il filo che unisce il dandy al pensiero di Kierkegaard e Nietszche, Wilde e Baudelaire.

Del loro ‘spiritualizzare’ il corpo e ‘materializzare’ l’anima.  Per scoprire “in che cosa il dandysmo, variante più appariscente e raffinata del decadentismo, sovente assai superficialmente liquidato come un idiota e misero surrogato degli eccessi più sfruttati, faccia capo proprio all’immagine di Kierkegaard e di Nietzsche, in tale sano e salutare ritorno all’unione di anima e corpo”. Una certa modernità e ‘verità’  psicoanalitica del dandysmo è anche nella sua sottolineatura del valore etico del ‘diventa te stesso’, indicata come la forma più alta di realizzazione dell’individuo, ‘eccentrico’ solo in quanto fedele a un suo disegno di espressione del Sé. ‘Esule’, per questo. (Cristina Bolzani)

Filosofia del dandysmo o l’estetica del vivere
Daniel S. Schiffer
Excelsior 1881
16,50 euro

 

————————————————————-

Nota dell’editore
«Non credo che una persona possa influenzarne un’altra», ribadisce Oscar Wilde all’avvocato Carson, difensore del marchese di Queensberry, nel dibattimento della causa che lo scrittore irlandese ha mosso al Pari d’Inghilterra, reo di avergli fatto recapitare un biglietto dedicato: «a Oscar Wilde che posa a sodomita».

Purtroppo è vero: nessuna persona può influenzarne un’altra. E infatti l’Italia è un Paese di pose, ma non è un Paese per Dandy. È un Paese per snob, piuttosto, che stanno al Dandy come le beghine a Santa Teresa d’Avila. Ed è un Paese per gagà, che dei Dandy sono imitazione appariscente, e dunque cialtronesca. Gaga non è Dada, insomma.

Eppure, proprio in Italia, il Dandy ha successo. Affascina e seduce. Tanto da essere diventato addirittura “moda”. Ossia proprio ciò che il Dandy più di tutto aborre, e rifugge.
«La moda è una forma di bruttezza così intollerabile che siamo costretti a cambiarla ogni sei mesi», scrive Oscar Wilde. «La moda è ciò che uno indossa. Ciò che è fuori moda è ciò che indossano gli altri», ribadisce. La natura del Dandy è l’artificio, ma cade in errore chi pensa si tratti di banale narcisismo.

«Ogni influenza è immorale perché ognuno nella vita dovrebbe tendere a realizzare la propria natura, per questo si nasce», fa dire Oscar Wilde a Lord Henry Wotton, suo alter ego in Dorian Gray. E«realizzare la propria natura» è cosa ben diversa dal «perseguire il proprio piacere», che molti invece vogliono leggervi.
Tanto più che Lord Henry chiarisce a Dorian Gray: «Per liberarsi di una tentazione non c’è altro modo che abbandonarsi a essa». E poco oltre aggiunge: «Degeneriamo (…) nell’ossessione del ricordo di passioni che abbiamo troppo temuto». Lui, alter ego di un autore che a quel tempo, in altre sue opere, ha già più volte ribadito: «La passione fa pensare in circoli viziosi». Ossia ottenebra, assoggetta a se stessa, imprigiona e acceca. Corre insomma una grande differenza fra la passione, ovvero il massimo della speranza, e l’intensità. E, così come per le parole di Lord Henry, è opportuno non confonderle.

In ogni caso, gran parte delle confusioni e falsificazioni a proposito di Dandy e dandysmo vengono suggellate il 3 aprile 1895, un mercoledì pomeriggio, nell’aula del tribunale penale centrale Old Bailey di Londra, quando il difensore del marchese di Queensberry dopo avere chiarito alla Corte che il romanzo Dorian Gray ha per soggetto l’ineludibilità della coscienza – è quindi un romanzo morale? Sembrerebbe – e per di più strutturato in modo che il lettore, ogni lettore, porti e proietti il proprio peccato nel protagonista, giacché i peccati di Dorian non vengono mai specificati, domanda a Wilde: «Ha lasciato aperta la questione peccati per suggerire che fra questi ci fosse anche la sodomia?». La risposta: «Alcuni potrebbero pensarla così», si rivelerà del tutto controproducente. Da quel momento infatti, l’avvocato Carson avrà buon gioco a cavalcare il non sequitur: «Se Wilde dice: “alcuni potrebbero pensarla così”, anche Wilde la pensa così», tanto che l’istanza dello scrittore irlandese verrà respinta, precipitandolo nell’inferno del secondo processo – questa volta a suo carico – per sodomia, nel quale sarà condannato.

Ironia della sorte, quel mercoledì 3 aprile 1895, Wilde cade vittima della stessa dialettica in cui primeggiava. E cade proprio nel momento in cui, come ribadisce più volte nell’aula dell’Old Bailey, espone il suo pensiero senza «nessuna posa in questa faccenda». O meglio, senza la protezione delle pose, viene da aggiungere. Wilde che aveva scritto: «Poca sincerità è pericolosa, e molta è assolutamente fatale».

Così, fra i meriti del marchese di Queensberry, imputato sì, ma Pari d’Inghilterra, oltre all’invenzione della Boxe – da lui definita nobile arte malgrado la distanza di una scazzottata tra due facinorosi dell’East End e un duello di samurai regolato dal bushido – bisognerebbe quindi ascrivere anche l’archiviazione del dandysmo. Fenomeno decisamente scomodo in un’Inghilterra inurbata, in cui la rivoluzione industriale iniziava a mostrare le prime crepe. scomodo soprattutto se si considerano i precetti (e il seguito) del movimento pre-raffaellita e di Morris, le prime gravi sollevazioni di lavoratori e pure il successo, ormai decisamente planetario per come era piccolo il mondo allora, di Oscar Wilde che oltretutto affermava: «L’industria è la radice di ogni bruttura». L’avvocato Carson ne ricaverà una brillantissima carriera. Sarà uno dei pochissimi personaggi del Regno Unito a ricevere i funerali di Stato senza essere re.

Il dandysmo «c’est le dernier éclat d’héroïsme dans les décadences», scrive Baudelaire. E anche se, a proposito di eroismi, bisogna sempre tenere a mente che il rischio di credersi Ettore ma ritrovarsi Paride è costantemente in agguato, altrettanto è necessario ricordare che la decadenza è semplicemente la rinuncia all’idea di progresso spirituale e materiale, che alimentava la società dal secolo precedente.

La fine del XIX secolo segna infatti l’apogeo del teatro, del romanzo borghese e il dramma della conoscenza pura. La scienza fa piazza pulita: «L’universo è ormai senza misteri», proclama. (…)

About Post Author

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *