Last Updated on 17 Aprile 2011 by CB
Di Alfonso Berardinelli, critico letterario e saggista, è uscito “Non incoraggiate il romanzo”.
L’intervista (di Cristina Bolzani).
Perché non dobbiamo incoraggiare il romanzo?
Intanto perché ce ne sono troppi. Il mio è un imperativo naturalmente, è un cauto invito. E dal momento che tutti scrivono romanzi e sono tantissimi quelli che li hanno già pubblicati ma sono ancora di più quelli che l’hanno nel cassetto, evidentemente c’è un’esplosione do volontà – o vorrei dire velleità – romanzesca, che quanto meno soprende, perché naturalmente non riusciamo più a regolarci, non dico noi critici, ma neppure i lettori. Arrivano in libreria e arrivano ai recensori una tale quantità di libri nuovi continuamente, intanto che non si riesce a leggerli, e sui quali poi è quasi impossibile una valutazione perché questa specie di enorme laboratorio in continua attività impedisce che ci sia chiunque capace di dominare l’insieme delle informazioni. Chiunque non è in grado di seguire tutta la produzione narrativa. Se poi si pensa che nascono continuamente scuole di scrittura – per esempio anche quella recente del Corriere della Sera – dobbiamo pensare che se queste scuole di scrittura avranno buon esito fra poco il numero dei romanzieri sarà almeno decuplicato, per cui arriveremo intorno ai mille romanzieri. Io non so se questa situazione può essere considerata normale.
Lei scrive che il romanzo ormai è più un genere editoriale che letterario. Però i lettori ci sono, di questo genere editoriale. Come se lo spiega?
C’è sempre stato il dubbio se gli acquirenti siano veri lettori. Il fatto è che la maggior parte del pubblico che compra libri vuole comprare romanzi, e vuole comprare romanzi contemporanei. Quando qualcuno mi chiede ‘dimmi un romanzo da leggere’ , se io appena dico un romanzo uscito trent’anni fa , loro dicono ‘no no, voglio qualcosa uscito ora’. Quindi il desiderio del romanzo c’è. Esiste questo desiderio del romanzo, questo sogno direi, che il presente, il proprio presente venga narrato da qualcuno. Se qualcuno non lo narra, e naturalmente se qualcun altro è in grado poi di fare le cose da solo, si mette a scriverlo lui lo stesso romanzo. Ma ho parlato di genere editoriale perché in fondo chi incoraggia la produzione di romanzo credo che siano proprio gli editori, perché è nototio ormai che la maggior parte della produzione libraria rischia molto. Diminuiscono i lettori – i lettori di poesia in pratica non esistono, i lettori di saggistica sono rari, una ristretta elite, quindi il grande pubblico si può immaginare che compri soltanto romanzi. E come dico nella prima frase del mio libro ‘Non incoraggiate il romanzo’, se solo potessero gli editori chiamarebbero romanzo qualunque libro pubblicano. Questo significa che quello che importa di più ormai è che si tratta di vendere una merce, venderla come romanzo. Vendere un sogno, il sogno dei romanzi.
Molti a un certo punto sentono il bisogno di scrivere. E’ questo che lei chiama “l’effetto patologico della democrazia” o ci sono altri effetti che non sono propriamente salutari?
Il bisogno di raccontare se stessi, la propria vita, è un bisogno probabilmente tra quelli fondamentali. Esiste ormai una diffusione della cultura tale che permette o illude molti di poter essere romanzieri, perché c’è bisogno di trovare un senso alla propria vita. E il romanzo naturalmente è questo che promette. Solo che fra il diritto di raccontarsi la propria vita e la qualità della produzione romanzesca, ecco fra queste due cose c’è una notevole differenza, per cui non possiamo considerare romanzieri chiunque. Anche nelle psicoterapie, per esempio, i terapeuti consigliano ai pazienti di scrivere la loro esperienza, di scrivere la loro vita. Queste narrazioni serviranno certamente moltissimo ai pazienti e anche ai terapeuti, per conoscere meglio; ma non è detto che siano dei veri romanzi. Quindi un bisogno c’è, ma la produzione con un valore letterario sicuramente è molto più ridotta di quella ‘potenziale’.
Lei a un certo punto cita un libro di Scurati il quale sostiene che i mass media hanno intercettato, hanno vampirizzato il rapporto con la realtà sottraendo questa funzione alla narrativa. A me sembra di capire che molti scrittori che funzionano spesso hanno con la realtà un rapporto mimetico, nel senso che riproducono dei mondi sociali, delle situazioni riconoscibili perché così hanno dei lettori che facilmente vanno a loro. Ma lo scrittore in origine non era colui che dava una visione originale e “allucinata” della realtà, ci dava un elemento soggettivo di più?
Sì certo. Beh il realismo tradizionale – posso fare l’esempio di Tolstoj o di Flaubert- in realtà sorprendeva il lettore. Non confermava il lettore in quello che già credeva che la realtà fosse, ma scopriva la realtà in una dimensione, in un modo, con un ‘di più’ di straniamento rivelante, rivelativo, che la rendeva diversa da quella comunemente percepita. Ma oggi sicuramente la tesi di Scurati è interessante, io l’ho discussa nel libro – e anche Walter Siti, che è uno dei migliori narratori contemporanei – sono entrambi degli scrittori molto intelligenti che riflettono del proprio lavoro. Entrambi parlano in un certo senso di ‘declino dell’esperienza’ e perfino di ‘derealizzazione della realtà’. La realtà sarebbe contaminata, sarebbe infiltrata di finzione, di fiction, di favole televisive, e quindi i media sarebbero mediazione che ogni individuo vive nei rapporti con la realtà. Io credo che questo sia sicuramente un problema che è emerso oggi quantitativamente, perché il pubblico dei media è enormemente aumentato e i mezzi di comunicazione di massa sono più potenti di prima. Però questo problema è sempre esistito in un certo senso, perché il rapporto tra quello che è reale e quello che è irreale è un po’ il tema del romanzo. In fondo nei romanzi anche più tradizionali, a cominciare da Don Chisciotte fino a Kafka – che è un romanziere fuori norma diciamo, fuori canone – il problema è sempre quello del rapporto fra illusione e realtà. Si crede realtà qualcosa che poi si rivela non essere, e si crede irreale qualcosa che poi in realtà succede.
E’ uscito pochi giorni fa l’ultimo libro di Alberto Arbasino. Lei gli dedica alcune pagine del suo libro. Secondo lei che funzione ha avuto nella letteratura contemporanea?
Arbasino ha avuto un’enorme influenza. E’ uno degli autori degli ultimi decenni del Novecento e anche dell’inizio del Duemila, uno degli scrittori che ha avuto maggiore influenza e amatissimo. Io stesso non sospettavo – benché lo conoscessi e leggessi da molto tempo – non sospettavo che la sua notorietà e anche il suo fascino, la sua ascendenza sui lettori fosse così forte. Esiste un pubblico di giovani e meno giovani ‘innamorati’ della scrittura di Arbasino, molto più di Eco, pur non essendo Arbasino un autore di best seller perché in fondo i suoi libri non assomigliano in nulla a quelli di Umberto Eco. Però io credo che sia, come dire, comprato meno ma amato di più. Questo deriva anche dal fatto che il personaggio non costruisce dei prodotti artefatti che sembrano proprio delle merci perfette per acchiappare i lettori. No, lui si esprime liberamente in un modo particolarmente vivace, brillante, inventivo, linguisticamente sorprendente. Ha le sue prudenze, intrediamoci. E’ un critico a volte spietato dei luoghi comuni culturali, ma è anche prudente nel senso che non fa nomi, non permette di identificare troppo apertamente i bersagli della sua polemica, quindi si libra un po’ a mezz’aria, e questo lo rende meno antipatico di quanto siano invece i critici culturali che prendono di mira direttamente dei personaggi esistenti, quindi si scontrano frontalmente diciamo così con l’avversario.
Cosa pensa del genere saggistico in Italia oggi? Non ci sono molti nomi…
I nomi ci sono. Ne faccio solo due tra i più famosi, ce ne sono altri perfino anche migliori ma meno famosi. I due più noti sono tra gli scrittori più conosciuti e più letti, cioè Claudio Magris e Roberto Calasso, nonché Pietro Citati. Prima c’era Cesare Garboli, che non era così popolare però era anche molto amato da lettori meno numerosi. Per esempiò c’è anche uno scrittore che cominciò come narratore, adesso è diventato prevalentemente saggista, straordinario secondo me: Raffaele La Capria, che ha molti lettori, e siamo ad altissimi livelli di qualità. Se dovessi dire a mio gusto i tre scrittori, senza distinzione di genere, più importanti, più riusciti, di più alta qualità della fine del Novecento, che nascono nel Novecento e poi concludono il secolo, farei questi tre nomi: Raffaele La Capria, Cesare Garboli e Piergiorgio Bellocchio , che fra i tre è il meno noto, ma è un saggista-narratore straordinario. La cosa curiosa anche è che questo sono saggisti che hanno una mente di narratori. Ci si sorprende perfino quanto la loro mente funzioni come quella di un narratore , ci si sorprende del fatto che non abbiano scritto romanzi. Qualche volta, che sono di umore negativo rispetto al genre romanzo, penso: ‘ecco , loro hanno la mente del romanziere. Perché non scrivono romanzi? Loro sì che saprebbero scriverli’. Ma non li hanno scritti. Ormai da decenni.
Alfonso Berardinelli, Non incoraggiate il romanzo – Marsilio