Oriana Fallaci

Last Updated on 19 Settembre 2006 by CB

«A chi non teme il dubbio a chi si chiede i perché senza stancarsi e a costo di soffrire di morire. A chi si pone il dilemma di dare la vita o negarla questo libro è dedicato da una donna per tutte le donne…». Scriveva così Oriana Fallaci nel 1975 nella dedica del suo Lettera a un bambino mai nato. Una donna per tutte le donne, questa era Oriana che dopo anni di silenzio all’indomani dell’11 settembre era tornata in tutto il suo Orgoglio e in tutta la sua Rabbia a denunciare a scuotere le coscienze a invitare a riflettere e urlare il coraggio dell’onestà intellettuale.Lei era tornata, scomoda come sempre. Lei nè di destra né di sinistra. Tanti gli attacchi. Era un’intellettuale non una politica. «Io non temo il dolore – scriveva. Esso nasce con noi, cresce con noi…Io in fondo non temo neanche di morire: perché se uno muore vuol dire che è nato». Oriana e la morte che nel romanzo Un Uomo descriveva come una «Ladra che non si presenta mai di sorpresa».

«La morte si annuncia sempre con una specie di profumo, percezioni impalpabili, silenziosi rumori». Oriana la morte l’aveva incontrata molte volte ma era sempre riuscita a sfuggirle. «Sono sempre stata ossessionata dall’idea della morte – raccontava -, ma non della mia». Quasi si ritenesse immortale, fino a quando l’Alieno, come lo chiamava lei, l’aggredì. «Si è fatto il nido nei polmoni, nella trachea e nell’esofago», scriveva nel 2004 in Oriana Fallaci intervista Oriana Fallaci, dove corona non un sogno ma l’idea di un progetto che aveva accarezzato più volte negli anni. L’autointervista di una donna coraggiosa e sprezzante, a volte brutale, nel descrivere le verità scomode, per gli altri che preferiscono solo sussurrarle. Lei no, Lei le urlava. Parlava del Cancro, quello fisico, che la divorava e di quello morale che divora l’Occidente. «Io continuerò a parlare finché avrò fiato. L’importante è che a leggermi qualcuno finisca col ragionare e col trovare il coraggio che ora non ha. Il coraggio di piangere insieme a me e ribellarsi». Lei che ne La Rabbia e l’Orgoglio ha scritto di non essere più capace di piangere con le lacrime ma che ha pianto ogni volta che «i figli di Allah sgozzano le loro vittime o commettono massacri nei quali muoiono i loro stessi bambini e i loro stessi fratelli».

«V’è un’attrazione magica nella tragedia» – scriveva in Niente e così sia -, nel rischio, nella sfida alla morte. E neppure i suoi aspetti più macabri riescono ad annullare il fascino che essa esercita su di te». Per Lei sarebbe stato troppo semplice liquidare il buio come assenza di luce, la morte come il contrario della vita. La temeraria Fallaci di Penelope alla guerra, che nel 1962 aveva il coraggio di trattare i temi dell’amore ambiguo e di una verginità di cui disfarsi al più presto per affrancarsi dalle tradizioni e dai tabù, non sfiorisce negli anni anzi rafforza quella caparbietà che l’ha resa la donna forte, decisa e per nulla incline al compromesso quale era. Una donna che già bambina combatteva per la libertà dal nazifascismo. L’aria che respirava in casa era quella di un padre così convinto delle sue scelte e delle sue idee che coinvolge la piccola Oriana, allora di soli 10 anni, nella Resistenza. La piccola apprende anche l’uso delle armi. Le stesse che poi l’avrebbero accompagnata nel suo percorso di giornalista pasionaria e ribelle che racconta gli scempi prodotti dalle guerre. Del dramma di un Paese, il Vietnam dove i bambini giocano con i cadaveri.

«La libertà è un dovere prima che un diritto», scriveva. Ho sempre amato la vita. Chi ama la vita non riesce mai ad adeguarsi, subire, farsi comandare. » «Chi ama la vita è sempre con il fucile alla finestra per difendere la vita. ». L’atteggiamento di fondo che l’ha contraddistinta da sempre e che ha fatto di lei una grande personalità intellettuale lo si ricava in modo esemplare in questa sua dichiarazione che si riferisce proprio al suo modo di condurre le interviste: «Su ogni esperienza personale lascio brandelli d’anima e partecipo a ciò che vedo o sento come se riguardasse me personalmente e dovessi prendere una posizione (infatti ne prendo sempre una basata su una precisa scelta morale)». Lo slancio che la spingeva a prendere carta e penna «è quello di raccontare una storia con un significato […], è una grande emozione, un’emozione psicologica o politica e intellettuale. Niente e così sia, il libro sul Vietnam, per me non è nemmeno un libro sul Vietnam, è un libro sulla guerra».

Bisogna avere la sua cultura, la sua classe, la sua formazione di vita, il suo coraggio per diventare la Fallaci. La sua personalità e il suo carattere di ferro. Unico vezzo il rigo tracciato con l’eyeliner sulle palpebre. «Lo faccio molto velocemente. Tac, tac, tac», disse a celebre fotografo americano Francesco Scavullo. E Scavullo lo descrisse così: «Due righe nere, spesse, decise, che si applica da sola e che esagerano i suoi sorprendenti occhi orientali. Quelle due righe sono diventate la sua firma».

«Ci sono momenti nella Vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre».
Questa era Oriana Fallaci.
(Sabrina Turco)

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