Stendhal (whom Proust hugely admired) once defined ‘beauty’ as the ‘promise of happiness.’ The promise appeared to have been both fulfilled and upgraded to rhapsody when, on a visit to Florence in 1817, he stood before Volterrano’s frescoes in the Basilica of Santa Croce and, aesthetically speaking, went straight to heaven: ‘absorbed in contemplating sublime beauty [ . . . ] I had reached the point of emotion where the heavenly sensations of the fine arts meet passionate feeling.’ This was the origin of the later invention of ‘Stendhal syndrome’ to designate a relation to an artwork of such epiphanic intensity that the spectator is completely invaded and inhabited by it. It is a ‘syndrome’ in the medical sense by virtue of an experience of initial possession turning into obsession, of ecstasy turning into addiction: beauty as the narcotic you cannot do without. It has also been waggishly named Art Disease and Art Attack, the latter acquiring a certain poignancy by virtue of the story of a visitor to the Uffizi gallery in 2018 who (like Bergotte while contemplating Vermeer’s View of Delft) actually had a fatal heart attack while in transport before Botticelli’s Birth of Venus.
Le trecce di Gilberte, in quei momenti, mi sfioravano la guancia. Nella loro graminacea finezza, al tempo stesso naturale e sovrannaturale, nella forza dei loro cesellati arabeschi vegetali, mi sembravano un’opera d’arte unica, per la quale fosse stata utilizzata l’erba stessa del Paradiso. A un loro sia pur minimo segmento, quale erbario celeste non avrei dato come reliquiario? Ma, disperando di ottenere un frammento autentico di quelle trecce, avessi potuto almeno possederne la fotografia, quanto più preziosa di quella di un disegno floreale eseguito da Leonardo!
In seguito, del resto, Bloch avrebbe irritato Albertine in altri modi. Come molti intellettuali, non riusciva a dire con semplicità le cose semplici. Per ciascuna di esse trovava un aggettivo prezioso, e poi generalizzava. Albertine, cui non piaceva molto che ci si occupasse di quello che faceva, si seccava che Bloch, quando lei s’era distorto un piede e restava a riposo, commentasse: «È sdraiata sulla sua chaise longue ma, per ubiquità, non cessa di frequentare simultaneamente golf fantomatici e tennis imprecisati».
E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d’acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè.
Elstir mi disse che la fanciulla si chiamava Albertine Simonet, e mi rivelò anche i nomi delle altre amiche, che gli descrissi con precisione sufficiente a eliminare, in pratica, ogni sua esitazione. Riguardo alla loro estrazione sociale, avevo commesso un errore, ma non dello stesso tipo di quelli in cui incorrevo di solito a Balbec, dove prendevo facilmente per principi dei figli di bottegai che andavano a cavallo. Stavolta, avevo collocato in un ambiente equivoco delle ragazze appartenenti a una piccola borghesia molto ricca, al mondo dell’industria e degli affari. Era, a prima vista, il mondo che meno m’interessava, non possedendo per me né il mistero del popolo, né quello della società dei Guermantes.
È vero che, un giorno, Forcheville aveva chiesto d’essere a sua volta accompagnato, ma quando, davanti alla porta di Odette, aveva sollecitato il permesso di entrare, Odette gli aveva risposto, indicando Swann: «Ah, dipende da questo signore, domandatelo a lui. D’accordo, entrate pure un attimo se volete, ma non per molto, perché vi avverto che gli piace chiacchierare tranquillamente con me, e non gradisce che ci siano visite quando viene lui. Ah, se voi conosceste quell’essere come lo conosco io! non è vero, my love, che nessuno vi conosce bene come me?».
Ogni volta che lo facevo solo materialmente, quel passo mi risultava inutile; ma se riuscivo, dimenticando la matinée Guermantes, a ritrovare ciò che avevo sentito posando i piedi in quel modo, la visione abbagliante e indistinta mi sfiorava di nuovo, quasi volesse dirmi: «Afferrami al volo se ne hai la forza, e tenta di risolvere l’enigma della felicità che ti propongo». E quasi subito la riconobbi, era Venezia, di cui i miei sforzi per descriverla e le sedicenti istantanee scattate dalla mia memoria non m’avevano mai detto niente, e che la stessa sensazione provata un tempo su due lastre ineguali del battistero di San Marco m’aveva restituita assieme a tutte le altre sensazioni legate quel giorno ad essa e rimaste in attesa al loro posto, da cui un’improvvisa combinazione le aveva fatte imperiosamente uscire, nella schiera dei giorni dimenticati. Allo stesso modo, il sapore della piccola madeleine mi aveva ricordato Combray. Ma perché le immagini di Combray e di Venezia mi avevano dato, in quel momento e in questo, una gioia simile a una certezza, e capace senza bisogno d’altre prove di rendermi indifferente la morte?