Last Updated on 8 Luglio 2006 by CB
«Il tempo, il luogo, sembrano fermi. Usciamo da via Fani e la vita pare tornare alla normalità, il traffico per le strade è quello di sempre. Incrociamo una macchina della polizia che viene in senso contrario a sirene spiegate con la paletta di fuori. Sicuramente è partito l’allarme, ma loro stanno andando in via Fani, noi invece stiamo venendo via…»Tre condanne all’ergastolo, dal 1999 in detenzione domiciliare perché gravemente malato di cuore, Prospero Gallinari, non certo un pentito, non ha mai negato o rinnegato le sue responsabilità. In questo lucido taccuino di appunti, offre un contributo decisivo alla ricostruzione della storia delle Brigate Rosse. Insieme a Renato Curcio, Mario Moretti e Alberto Franceschini, Gallinari è stato uno dei nomi di spicco delle BR. Militante fin dal principio, è stato uno dei massimi dirigenti dell’organizzazione durante il periodo cruciale del sequestro Moro e uno dei capi della colonna romana. Nel suo libro, Gallinari si assume tutta la responsabilità del percorso di vita che lo ha condotto dalla giovinezza a Reggio Emilia agli ergastoli collezionati davanti a quattro o cinque Corti d’Assise. E lo fa senza lifting, con l’onestà di restituire esattamente la psicologia e l’universo ideologico di un giovane rivoluzionario degli anni Settanta.
Gallinari cresce nel mito delle lotte operaie ascoltando i discorsi dei vecchi compagni sulla Resistenza tradita. Contadino e comunista. Nato in una famiglia di mezzadri presto arriva alla rottura con i responsabili del Pci per aver esposto in sezione le bandiere in morte del Che Guevara – «per loro era un trockista, un avventurista …» viene espulso con il gruppo dei ragazzi arrabbiati che, all’alba del 1968, si ritrovano nella soffitta dell’appartamento in via Emilia San Pietro dando presto vita al Collettivo Politico Operai-Studenti.
Riga dopo riga, la spirale della violenza inghiotte una intera generazione. Pagina dopo pagina si riconosce la sua voce, il suo grido che è un inno alla conquista del potere da parte del proletariato delle fabbriche. La voce della Rivoluzione, il coraggio della difficile scelta della militanza clandestina. Ma anche la voce delle incertezze verso tanti cambiamenti. Il suo continuo richiamo a una ragione politica. Le scelte di questo ‘contadino’ trapiantato nella metropoli sembrano dipendere da una sorta di rettitudine morale tipica di chi è nato, cresciuto e alimentato con ‘pane e politica’ nella Reggio degli anni Cinquanta. La reticenza verso alcuni dettagli, il modo di nominare le persone, la sofferenza procurata dal comportamento di molti compagni per lui fidati raccontano l’odissea politica di un uomo che ha creduto nel riscatto di chi viveva ogni giorno con la schiena piegata in fabbrica, in cantieri governati dall’ ‘ostinata clausura politica’ e ostile verso chi quella schiena tentava di alzarla.
«Eravamo clandestini per lo Stato, non per le masse. Le testimonianze di ‘sfacciata simpatia’ dimostrata da movimenti legali è la prova che la «pratica dell’organizzazione è radicata nelle contraddizioni e nelle tensioni sociali del Paese. La clandestinità delle Brigate Rosse è organizzativa e non politica…»
Torino, Milano, Genova, il lavoro di radicamento del movimento nei grandi poli industriali, nelle fabbriche continua. Il delitto Moro è solo uno dei più drammatici capitoli di Un contadino nella metropoli. «Moro si rende velocemente conto che il suo problema è tutto politico. E’ stato sequestrato in rappresentanza di un partito e di una politica che noi attacchiamo in base a considerazioni generali…anche se ad un certo punto , si renderà conto che gli è stata fatta terra bruciata attorno, che interessi interni al suo partito, hanno preso il sopravvento su qualsiasi possibilità di soluzioni…»
Dal punto di vista storico è un documento che si consulta con interesse. Uno spaccato di vita politica e personale che si dipana tra l’impegno politico, la militanza clandestina e la frammentaria comunità che vive, urla, lotta e combatte dietro le sbarre. E ancora le discussioni, i documenti politici. Oggi Gallinari scrive la sua storia senza autocelebrazioni, senza retorica. In punta di penna. Un linguaggio asciutto, diretto, semplice. E’ un libro di un padre che non ha avuto figli. Di un figlio che per quello in cui credeva ha perso il padre e la madre, la sorella, e ha scelto la clandestinità. L’esilio dagli affetti più cari. Ripercorre quei momenti lasciando scivolare i ricordi, anche quelli più bui e dolorosi di quel percorso di impegno politico che in tempi d’individualismo assoluto come quello vissuto dalle nuove generazioni di oggi sono difficili da far comprendere.
La forza e il valore di questo libro sta tutto nella capacità di parlare con schiettezza ed onestà di un argomento tuttora tabù e che spacca ancora il Paese. Le Brigate rosse sono state il movimento che ha portato alle estreme conseguenze quella ‘rottura del monopolio statale della violenza’ che costituì la caratteristica principale dei movimenti rivoluzionari, tanto a Valle Giulia quanto a Berkeley.
La spirale si consuma in quella che Prospero Gallinari definisce ‘una sconfitta epocale’ delle Br e del loro sogno di far la rivoluzione. In questa mappa dei ricordi di una vita dedicata alla militanza: «Dissociarsi, è la parola d’ordine escogitata da alcuni con l’intuizione febbrile del naufrago deciso a restare a galla ad ogni costo», racconta ancora Gallinari. «La realtà e la storia politica che ha attrraversato negli anni Settana il nostro Paese faticano a entrare in questo schema, ed è proprio una parte degli uomini e delle donne che volevano cambiarla radicalmente, a fornire alla borghesia la legittimazione per delcassare a terrorismo la sfida sociale, politica e umana, lanciata da un’intera generazione all’arroganza del potere…»
Un libro che si legge tutto d’un fiato, non concede nulla all’ipocrisia ed è lontano anni luce dall’autocelebrazione. La crisi del progetto brigatista viene descritta con la sofferta lucidità di chi quel progetto ha contribuito a definire e praticare. Gallinari vede e sente avvicinarsi la sconfitta, ma non intende partecipare al banchetto dei tanti attori che prima uccidevano e poi si pentivano e si dissociavano. Si assume tutte le sue responsabilità di comunista rivoluzionario, paga – continua a pagare – le conseguenze della propria scelta di vita e, con serena lucidità, avverte: una storia è finita. La storia continua.
(Sabrina Turco)