Last Updated on 27 Agosto 2005 by CB
Come scrivere, come parlare della Moda? L’aspetto che decisamente ci fa consigliare la lettura di questo saggio – peraltro erudito e appassionato – è proprio l’originalità del linguaggio e dello stile, che rende la lettura piacevolmente istruttiva, e riposiziona il fenomeno Moda all’interno del suo contesto storico e culturale, aldilà di certe concitate scorribande televisive, o di certa editoria ‘di settore’, troppo tecnica o frivola o mercenaria.
Qualche giorno fa il critico letterario Pierluigi Bellocchio ammetteva, sul Corriere della Sera, di aver «omesso da tempo di seguire la narrativa», e di preferire «gli esecutori», trovandovi, oggi, maggiore creatività. Forse anche per questo il libro ci sembra convincente; perché Quirino Conti, architetto, scenografo e costumista, con l’industria della Moda collabora, e allora ciò di cui parla, se pure filtrato dalla sua multiforme cultura e dal suo gusto, mantiene comunque un rapporto stringente, quasi mimetico, con quel mondo magico. Insomma, fortunatamente non siamo di fronte a un saggio a sfondo semiologico (del resto Roland Barthes ci ha pensato una volta per tutte decenni fa con il suo Il sistema della moda), né sociologico, e nemmeno a una testimonianza nostalgica. Semmai è un tributo, come suggerisce il titolo, a quegli énervés, a quei ‘nervosi’, snervati nella creazione di abiti e forme, continue e contigue al loro stile e al loro tempo, ma sempre dis-misurate rispetto a quelle che le precedono.
«Tutto ciò che abbiamo di grande – scrive Proust parlando degli artisti – ci viene dai nervosi. Mai il mondo saprà quanto deve loro; e soprattutto quanto essi hanno sofferto per produrlo».
Le Conversazioni sulla moda, questo il sottotitolo, hanno un incipit, a ogni capitolo, tratto dalla Recherche, che ci porta difilato nell’atmosfera cangiante del parlare di superfici toccando la profondità. Per lo scrittore francese infatti, gli abiti sono «le serrate volute e i labirinti di un cervello, simmetrici a quelli, bui, dell’anima», e «l’ombra sentimentale e visibile del Tempo invisibile; la sua traccia, le oscure, ricorrenti numerazioni del suo nero quadrante».
C’è il racconto della storia della moda, dalla mitica haute couture di Chanel e Balenciaga allo stilismo della modernità (di rigore la distinzione tra un ‘prima’ e un ‘dopo’ Armani). C’è la suddivisione dei creatori di moda in varie categorie, e il conio di vari azzeccati neologismi: dagli Addobbatori – amanti di un troppo facile, fin banale grazioso – ai Raccattatori (Karl Lagerfeld) – che citano dettagli del passato inserendoli in un eterogeneo, frammentato contesto – ai Rottamatori (Jean-Paul Gaultier, cineasta del rottame) che cercano «un insieme da abbattere, per salvaguardarlo almeno in parti» – agli Indistinguibili, ai Pleonastici semplificatori…
Convince e seduce, di questo libro, il gusto (a tratti vagamente arbasiniano) per l’accumulo di riferimenti, per l’enumerazione, la stratificazione di concetti, opere d’arte o letterarie, e di definizioni, di similitudini e metonimie, che attraversano tutte le fasi e le seasons della Moda: dalla grandeur autocelebrativa, a quella autorefenziale, dal razionalismo minimal alle ridondanze sfarzose anni Ottanta; dagli stilisti agli stilemi, dai creatori che imitano l’arte ai registi e fotografi, cantori del moderno Zeitgeist estetico, dello Stile e del Bello.
(Cristina Bolzani)
da Mai il mondo saprà. Conversazioni sulla moda (Feltrinelli 2005, 19,50 euro)
«Con la sua buffa faccia di fauno beffardo, arguto e sorridente, ancora luminosa, così simile a quella di Arthur Rubinstein quando, a occhi stretti, se la rideva a crepapelle, sul letto di morte Marc Chagall chiese una Bibbia. Quando la ebbe fra le mani sussurrò: ‘Qui c’è tutto, c’è tutto!’, e serrandosela al petto se ne volò via per raggiungere i suoi barbuti violinisti verde-azzurrini in tuba, le capre viola, i cavalli e le ballerine – bianchi e alati entrambi – sui tetti sbilenchi di Parigi e del mondo. Ed è proprio così, in quel libro c’è tutto; a cominciare – e sembra impossibile, tanto lo si è ignorato preferendogli per evidenti motivi il nudo primigenio – dal primo abito che sia comparso nel Creato appena chiamato in vita al primo, in questo caso davvero divino, couturier-stilista che ne fu l’autore: Dio stesso. ‘E il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie delle tuniche di pelli e le vestì’. (Genesi, 3,21)». Evidentemente, per indossarle i due progenitori si erano dovuti disfare, perché inconfrontabile, del poco che da soli erano riusciti ad arrangiare dopo aver assaporato il frutto proibito (…) (p. 9-10)