Last Updated on 10 Luglio 2010 by CB
Non è un caso di certo che un ebreo come Jonathan Safran Foer sia riuscito in modo così penetrante a farci capire l’olocausto che comporta l’allevamento intensivo degli animali. Forse veramente solo un ebreo, per l’affinità che i campi di sterminio hanno con stalle e macelli, poteva arrivare in modo così efficace al nostro cuore, ma soprattutto al nostro stomaco.
Il titolo del libro, in italiano ‘Se niente importa’, è la citazione di una frase che pronuncia la nonna di Foer. E’ la risposta che la vecchia ebrea polacca dà a suo nipote per spiegargli come mai, lei, profuga in fuga dallo sterminio, ridotta ormai a pelle e ossa, rifiutò un pezzo di carne di maiale che le era stato offerto da un contadino. La nonna di Foer rifiutò quel pezzo di carne perché gli ebrei non mangiano il maiale e anche se la fame ci prova, e quasi sempre ci riesce, a privarci degli ideali o dei valori che ci definiscono, in quel caso la nonna di Foer disse no. Allora Jonhatan le chiede perché tra il salvarsi la vita e la sua integrità ebraica avesse scelto la seconda. E la nonna risponde : “Perché se niente importa non c’è niente da salvare”.
Lasciando da parte le considerazioni sul cibo Kosher (gli ebrei macellano gli animali con lame sottilissime per ridurne la sofferenza) è importante dire subito che Foer non è un animalista che antropomorfizza gli animali, si capisce da come parla obiettivamente dei limiti del suo cane. Foer, come tutti coloro che amano in modo intelligente gli animali (che poi coincide con un modo animale di amare gli animali) si interroga sul mistero dell’addomesticamento, sul mistero di una convivenza salda ma fondata su una irriducibile differenza. Quella tra l’uomo e il cane, tra l’uomo e il gatto, tra l’uomo e qualsiasi animale che ormai non siamo più abituati a frequentare perché ci arriva direttamente a fette su un vassoio di polistirolo. Una convivenza silenziosa dove però passa l’affetto, il ritmo di vita condiviso, aspettative confermate, abitudini comuni. Tenetevi forte: emozioni. Una convivenza che ci obbliga a osservare qualcosa di vivo che è vivo nonostante non sia proprio identico a noi.
Quello su cui Foer fa leva, nel suo libro, è l’empatia. Qualcosa che sta stipato come un pulcino d’allevamento in un angolo nascosto della nostra umanità illuminata a giorno, come un capannone industriale. E’ qualcosa di profondamente piagato, ad alto rischio di soffocamento.
L’empatia su cui fa leva Foer è quella dell’animale uomo per l’animale. Per la sofferenza come esperienza fisiologica comune alle specie.
Insomma un problema etico e ambientale. Ambientale perché l’industria alimentare è causa dei mutamenti climatici più del trasporto. Etico perché volenti o nolenti quando infliggiamo sofferenza dobbiamo porci il problema se sia evitabile, gratuita, riducibile. Insomma non possiamo illuderci che far soffrire qualcosa di vivo non sia un problema di coscienza. Ma non ne farei una questione ‘umanitaria’. Quello che il libro di Foer mette bene in evidenza è che non è solo ‘disumano’ il modo in cui gli animali degli allevamenti intensivi vengono trattati (verità comunque sacrosanta). Il problema è anche, e soprattutto direi, che è ‘disanimale’ il modo in cui l’uomo porta avanti la sua sopravvivenza sul pianeta. Sopravvivenza che coincide in questo caso soprattutto con il prefisso ‘sopra’ e che sarebbe più corretto definire sopraffazione, perdipiù in nome di qualcosa che è in gran parte superfluo.
Se qualcuno di voi prova un senso di disagio al banco delle carni si legga questo libro, perché forse è il caso di esplorare quella parte in ombra che il nostro stile di vita espande sempre di più malgrado il neon dei nostri supermercati , le luci al sodio delle nostre strade ci diano l’illusione che ‘Ogni cosa è illuminata’, per citare un altro libro di Foer.
Per certi versi ‘Se niente importa’ mi ricorda il cuore di tenebra dell’Europa colonizzatrice di Joseph Conrad: Kurtz è l’allevatore industriale che fa il lavoro sporco e intanto il consumatore a casa, imbozzolato dall’idea di progresso, come un mostruoso castoro, accumula e accatasta provviste, le riordina, le organizza, spesso con l’effetto di alimentare soprattutto le sue malattie (diabete e ipertensione) in una stolida ignoranza di quello che ha nel piatto, preso com’è da una gratificazione immediata che ci racconta di una società regredita e imprigionata, sotto quasi ogni aspetto, alla sua fase orale. L’uomo civilizzato: gigantesco bambino onnivoro, cannibale, disumano e gravemente disanimale.