Last Updated on 27 Settembre 2004 by CB
«Rilascia interviste solo la mattina presto o dopo le 18, meglio la mattina», ci dicono all’ufficio stampa del Festivaletteratura di Mantova. La sua richiesta sarebbe per le otto, trattiamo per le otto e trenta, sarà poi lui a chiederci lo spostamento alle nove, anche i più mattinieri non possono evitare di far le ore piccole travolti dal Festival e dalla vita della città nei giorni dell’evento che la risveglia. C’è un tempo dei narratori e un tempo dei saggisti. E’ difficilissimo che chi lavora di fantasia richieda di essere intervistato la mattina presto. Come se la mente si risvegliasse più tardi e ai sogni e alla fase del risveglio andasse lasciato tutto il tempo necessario. Latouche invece è un saggista.
Alto, un aspetto imponente, un bastone che pare portato più per vezzo o per sicurezza che per necessità, un sorriso disponibile e cordiale che non cancella l’aria del professore e dello studioso. Non toglierà neppure per un attimo il berretto con la visiera a coprire la chioma disordinata che gli avevamo visto nell’incontro con il pubblico. Il suo italiano è abbastanza ricco e corretto da farglielo scegliere come lingua per l’intervista, come già per il confronto pubblico. Gli piace, senza esagerare e senza per questo esaltarsi, essere considerato un anticipatore dei temi e dei tempi, alla parola ‘profetico’ gli sorridono gli occhi. Perché quando lui ha scritto L’occidentalizzazione del mondo l’attenzione alla globalità e alle connessioni tra le culture l’avevano in pochi grandi maestri.
Antropologo ma non solo, studioso della società nelle sue forme manifeste e in quei legami invisibili che ne tracciano la struttura, il suo lavoro non sta solo in quello che scrive personalmente, ma in ciò che sa raccogliere e coordinare del lavoro e degli studi degli altri, come ha fatto nella rivista Mauss. Di questa non può fare a meno di ricordare, prima che inizi l’intervista, il ruolo essenziale di Alfredo Salsano, il direttore editoriale di Bollati Boringhieri scomparso da pochi mesi, amico fraterno, oltre che grande intellettuale, di quelli che ti aiutano a leggere la complessità del mondo. E a renderlo più bello e interessante.
L’intervista di Luciano Minerva
Negli ultimi anni si è diffuso anche nel linguaggio comune il termine globalizzazione, è un termine che lei non usa, preferisce mondializzazione, ma prima ancora lei ha introdotto un altro termine che è occidentalizzazione. Come vede oggi, alla luce di quello che è successo, la scelta di questo termine, e come lo vede modificato, eventualmente?
Forse un po’ è segno di orgoglio, ma penso che avevo trovato il termine giusto, perché quando si è posta a Henry Kissinger la domanda: «Cos’è la globalizzazione?» lui ha risposto: «La globalizzazione altro non è che il nuovo nome della politica egemonica americana». E’ una risposta fantastica perché è di un cinismo terribile, ma è vero che la mondializzazione (o globalizzazione) non ha senso. Il mondo è globalizzato già da molti secoli. La sola cosa che è cambiata, ed è un cambiamento della politica mondiale, è che dopo il crollo dell’impero sovietico c’è un mondo unico che è dominato dall’America e dall’Occidente. Penso che sia meglio parlare di Occidente che soltanto di Stati uniti, perché loro naturalmente sono la potenza egemonica, ma tutto l’Occidente è più o meno solidale. L’espressione «occidentalizzazione del mondo» conteneva già questo processo che oggi si chiama globalizzazione, ma in francese preferiamo il termine mondializzazione.
Occidentalizzazione, lei specifica bene, è, al contrario di come viene usato globalizzazione, un termine che riguarda esclusivamente processi economici. Lei mette bene l’accento sul fatto che è un processo che arriva da molto lontano e che è sbagliato vedere i processi economici come un aspetto separato dal resto…
Questo è vero, ed è la seconda ragione per cui preferisco questo termine. Perché di sicuro oggi viviamo, e questa è la cosa nuova della cosiddetta mondializzazione, il tempo di una economicizzazione totale del mondo. Ma dobbiamo ritenere che l’economia non sia fuori della cultura. L’economia è la cultura di noi occidentali, ma questa cultura economica viene da molto lontano. E come la nostra cultura è diventata economia? C’era un prima dell’economicizzazione e questo volevo spiegare ne L’occidentalizzazione del mondo. Nel secolo scorso già la colonizzazione era la conquista delle anime, come dicevano i colonialisti, ma c’era un imperialismo culturale e oggi la forma dell’imperialismo culturale si fa attraverso l’ideologia del mercato.
Lei dice che l’occidentalizzazione è anche una grande messa in scena mondiale e in questa macchina della tecnologia mondiale il legame sociale si tiene solo con il terrorismo di massa.
Il mio pensiero è che il processo di questa modernità, specialmente nella forma della tarda modernità che è l’occidentalizzazione del mondo, distrugge tutti i legami sociali. Oggi la sopravvivenza della tradizione è sparita e una società non può funzionare soltanto sui legami del mercato. Per il titolo di un mio libro ho usato il termine di ‘megamacchina’. Questo vuol dire che la società umana si è trasformata in una grande macchina di cui siamo ingranaggi, tutti siamo ridotti allo stato di ingranaggi. Vuol dire che il legame sociale tiene soltanto per questo inserimento negli ingranaggi nella megamacchina, ma che non c’è più il legame tradizionale e che soltanto un sistema totalitario, come già l’avevano pensato Orwell o Aldous Huxley, può sostenere una società tecnoeconomica così forte e così avanzata. Così anche un Paese che ha una tradizione forte di liberalismo nel migliore senso della parola, come gli Stati Uniti, diventa a poco a poco uno stato poliziesco, con la legge patriottica che toglie sempre più libertà. Se si pensa che Edward Kennedy è stato rifiutato agli aeroporti perché era su una lista come terrorista… Allora si vede oggi che questa megamacchina che distrugge tutto, tutte le tradizioni, tutte le credenze, o almeno ne ha la tendenza perché non riesce a farlo fino in fondo, genera un terrorismo per il risentimento di tutte le vittime, ma questo terrorismo è la risposta al terrorismo dello Stato e al terrorismo del mercato.
Lei si dice insoddisfatto della parola universalismo e dice che andrebbe sostituita con il termine pluriversalismo. Che cos’è il pluriversalismo?
Va detto che “universalismo” sembra una parola bellissima, ma è bellissima per noi occidentali perché l’abbiamo inventata nel Settecento, è la parola d’ordine dell’illuminismo. Ma oggi si verifica che non tutti si riconoscono in queste aspirazioni cosiddette universalistiche, perché l’universalismo alla fine è l’ideologia occidentale, anche con i diritti dell’uomo. Un amico, che è un teologo famoso, Raimon Panikkar, dice che in tutte le civiltà ci sono delle aspirazioni più o meno condivise che hanno delle affinità: sono equivalenti, ma non identiche. Per esempio gli indiani, che pensano che la mucca sia molto più importante di altre cose, hanno un’aspirazione alla dignità che si traduce nel termine dharma. Ma non è esattamente la stessa cosa che i diritti dell’uomo, e noi occidentali, abbiamo imposto questa ideologia universalistica che di fatto è l’ideologia occidentale. E penso che se vogliamo la convivenza delle culture, dobbiamo pensare a un dialogo vero, non ad un imperialismo , non a un imperialismo culturale, perché oggi viviamo in un tempo di imperialismo culturale occidentale sotto la forma dell’universalismo imposto. Così si può fare un gioco di parole con universalismo, pensiero unico, mondo unico, universo unico. “Pluriversalismo” significa che c’è un’aspirazione comune nella diversità: un vero pluralismo culturale fondato su una vera democrazia delle culture. Tutte sono diverse, uguali e condividono naturalmente la volontà di tolleranza reciproca.
In questo universalismo dell’Occidente entra il dono, ma in termini completamente diversi da quello con cui il dono si usava nelle società tradizionali. Quindi lei è molto critico anche nei confronti di alcune Ong, per il modo in cui l’Occidente si rapporta nei confronti del cosiddetto Terzo mondo.
Sì, perché ci porta al paternalismo dell’Occidente, perché nello stesso tempo l’Occidente impone la legge economica senza pietà: gli affari sono gli affari e hanno espulso anche dai rapporti commerciali tutto il senso di umanità, mentre i rapporti commerciali tradizionali sono rapporti di dialogo, non c’è solo il denaro. Hanno separato completamente, sotto il nome della generosità nella tradizione cristiana, il dono, che sarebbe un dono assoluto, gratuito, senza contropartita. Ma coloro che ricevono un dono senza contropartita si sentono aggrediti perché non possono ricambiare. Se vogliamo aiutare qualcuno dobbiamo avere qualcosa da chiedergli, perché nel momento del dono anche l’altro possa sentirsi riconosciuto come soggetto. Invece molte Ong, di fronte al Terzo Mondo, pensano solo di portare, di dare qualcosa: l’occidentale è sempre qualcuno che vuole portare la civiltà, il commercio, ma non ricevere qualcosa. Invece dobbiamo accettare, il dialogo delle culture è nell’accettare di ricevere qualcosa sul medesimo piano.
Ci sono molte correnti economiche che sono alla ricerca di un’etica dell’economia. In Giustizia senza limiti cita «500 corsi di etica spesso sponsorizzati da grandi imprese nei campus americani». Sulla base di questi ed altri dati lei sostiene che etica ed economia non possono andare d’accordo, che non può esistere un’economia etica.
Sì, perché la logica economica, già vista da Aristotele, è di strumentalizzare: l’uomo è strumentalizzato come salariato, la natura è strumentalizzata come materia prima e come macchina, non c’è posto per un’etica vera, si deve reinserire l’economia in un rapporto umano per introdurre l’etica. Se nel momento dell’economicizzazione del mondo si parla dell’etica come qualcosa che non esiste più, allora non è una cosa innocente: è soltanto un tentativo di mascherare il fatto che l’etica è espulsa e tutti oggi possono vedere che non c’è più come in altre situazioni la possibilità di distinguere davvero l’economia normale dall’economia criminale, come si vede nello scandalo di Parmalat o di Enron. Si passa attraverso i paradisi fiscali, si passa attraverso tutti questi processi dell’economia moderna transnazionalizzata, e si vede che non ci sono più limiti tra l’economia normale e l’economia criminale: l’economia normale diventa criminale, l’economia criminale diventa normale. E dov’è l’etica in questo?
Ci sono modi di pensare che non fanno parte del pensiero unico, che non si adeguano, che continuano a lasciare spazio all’umanità nei rapporti di lavoro, a un uso del tempo non funzionale alla produttività. Cita l’esempio dell’allevatore che preferisce avere una sola mucca, anziché due con un maggiore guadagno, ma riesce a godersi il tramonto. Che possibilità di sopravvivenza hanno questi modi di pensare nel mondo globalizzato?
Ho parlato prima della megamacchina, ho detto che tutti siamo ingranaggi. Naturalmente questa è una metafora, perché non siamo ingranaggi, fondamentalmente siamo uomini e come uomini c’è sempre qualcosa di irriducibile alla macchina, e anche nell’uomo che è a capo di un’impresa c’è una tendenza sovversiva. Nello stesso tempo in cui siamo all’acme della mercificazione totale c’è una reazione profonda, vediamo già che il momento del trionfo della globalizzazione è anche il momento in cui si annuncia il crollo di questo processo. Allora penso che c’è un bel futuro davanti a noi per le idee eterodosse sull’economia, sui rapporti sociali. Il lavoro che facciamo con il movimento antiutilitarista e che trova spazio sulla rivista Mauss è un po’ un laboratorio per il futuro.
Oggi si vedono sempre di più forme nuove di organizzazione, come il commercio equo e solidale. Quale possibilità c’è con un sistema diverso di organizzazione, di reti, di poter governare questi fenomeni e secondo lei chi e come si governeranno?
Su questo punto non sono profeta. Naturalmente stiamo sperimentando forme nuove, perché si vede bene che la forma tradizionale del partito politico non funziona più, c’è una crisi della politica. Allora cerchiamo di collegarci per fare azioni, come il movimento no global. Ci sono forme nuove, ma il futuro di queste forme non lo so: penso che si deve ricostruire, perché si parla sempre della società civile, ma chi l’ha vista la società civile? Si deve ricostruire una forma di cittadinanza e di una nuova società attraverso queste forme di reti, ma…
Prevarrà finalmente, come lei auspica ne La sfida di Minerva, la ragionevolezza sulla razionalità?
Di sicuro la razionalità va alla catastrofe allora dobbiamo tornare al ragionevole, ma saremo ragionevoli? Questa è un’altra storia.
Biografia
Serge Latouche insegna Storia del Pensiero Economico presso l’Università Jean Monnet di Parigi XI e conduce attività seminariale presso l’IEDES (Institut d’ Étude du Économique et Social) di Parigi. Esperto di cooperazione allo sviluppo, e specialista del Terzo Mondo e dell’epistemologia delle scienze sociali, ha pubblicato in Italia numerosi libri, tra cui il recente Giustizia senza limiti, dove mette a confronto l’apologetica della società di mercato realizzata dalla scienza economica, con l’ingiustizia del mondo che evidentemente svuota di contenuto ogni pretesa morale dell’economia. In quanto condividono il medesimo immaginario economico, liberismo e marxismo sono oggetto della stessa critica radicale, che si estende alla degenerazione dello stato sociale di matrice socialdemocratica. Nella terza parte del libro, Latouche abbozza i tratti di quel che potrebbe significare una società giusta nel contesto di un mondo devastato dall’economia, insieme unificato e diviso dal mercato.