E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d’acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè.
Elstir mi disse che la fanciulla si chiamava Albertine Simonet, e mi rivelò anche i nomi delle altre amiche, che gli descrissi con precisione sufficiente a eliminare, in pratica, ogni sua esitazione. Riguardo alla loro estrazione sociale, avevo commesso un errore, ma non dello stesso tipo di quelli in cui incorrevo di solito a Balbec, dove prendevo facilmente per principi dei figli di bottegai che andavano a cavallo. Stavolta, avevo collocato in un ambiente equivoco delle ragazze appartenenti a una piccola borghesia molto ricca, al mondo dell’industria e degli affari. Era, a prima vista, il mondo che meno m’interessava, non possedendo per me né il mistero del popolo, né quello della società dei Guermantes.
È vero che, un giorno, Forcheville aveva chiesto d’essere a sua volta accompagnato, ma quando, davanti alla porta di Odette, aveva sollecitato il permesso di entrare, Odette gli aveva risposto, indicando Swann: «Ah, dipende da questo signore, domandatelo a lui. D’accordo, entrate pure un attimo se volete, ma non per molto, perché vi avverto che gli piace chiacchierare tranquillamente con me, e non gradisce che ci siano visite quando viene lui. Ah, se voi conosceste quell’essere come lo conosco io! non è vero, my love, che nessuno vi conosce bene come me?».
Ogni volta che lo facevo solo materialmente, quel passo mi risultava inutile; ma se riuscivo, dimenticando la matinée Guermantes, a ritrovare ciò che avevo sentito posando i piedi in quel modo, la visione abbagliante e indistinta mi sfiorava di nuovo, quasi volesse dirmi: «Afferrami al volo se ne hai la forza, e tenta di risolvere l’enigma della felicità che ti propongo». E quasi subito la riconobbi, era Venezia, di cui i miei sforzi per descriverla e le sedicenti istantanee scattate dalla mia memoria non m’avevano mai detto niente, e che la stessa sensazione provata un tempo su due lastre ineguali del battistero di San Marco m’aveva restituita assieme a tutte le altre sensazioni legate quel giorno ad essa e rimaste in attesa al loro posto, da cui un’improvvisa combinazione le aveva fatte imperiosamente uscire, nella schiera dei giorni dimenticati. Allo stesso modo, il sapore della piccola madeleine mi aveva ricordato Combray. Ma perché le immagini di Combray e di Venezia mi avevano dato, in quel momento e in questo, una gioia simile a una certezza, e capace senza bisogno d’altre prove di rendermi indifferente la morte?
Certo non avevo più la forza di rinunciare a lei come l’avevo avuta con Gilberte. Più ancora che rivedere Albertine, quello che volevo era metter fine all’angoscia fisica che il mio cuore, più malandato d’un tempo, non poteva più sopportare. Inoltre, a forza d’abituarmi a non volere, si trattasse di lavoro o d’altro, ero diventato più vile. Ma soprattutto, questa angoscia era incomparabilmente più forte per molte ragioni, la più importante delle quali non era, forse, che con Madame de Guermantes e con Gilberte non avevo mai gustato piaceri sensuali, ma che non vedendole ogni giorno, ad ogni ora, non avendone la possibilità e per conseguenza il bisogno, c’era in meno, nel mio amore per loro, la forza immensa dell’Abitudine.
Ripensando al modo in cui Charlus era piombato su Morel e me, coglievo la somiglianza con certi suoi parenti quando, per strada, puntavano una donna. Semplicemente, l’oggetto preso di mira aveva cambiato sesso. A partire da una certa età, e anche se evoluzioni diverse si compiono dentro di noi, più si diventa se stessi e più s’accentuano i tratti di famiglia. La natura, infatti, mentre combina armoniosamente il disegno del suo arazzo, interrompe la monotonia della composizione con la varietà delle figure che vi inserisce.
Ero convinto di desiderare Balbec non meno intensamente del medico che mi curava e che la mattina della partenza, stupito della mia aria infelice, mi disse: «State pur certo che se solo riuscissi a trovare otto giorni per andare a prendere il fresco su una spiaggia, non mi farei pregare. Andrete alle corse, alle regate, sarà magnifico».