Last Updated on 2 Ottobre 2005 by CB
«I ritratti sono racconti. Si tratta di imparare a leggere questo racconti. Quando vediamo un volto, è tanto forte la necessità di interpretarlo che a volte finiamo per non vederlo. Per vederlo dobbiamo separare la visione dall’interpretazione: dobbiamo smettere di leggere i segni, per leggere la forma. La difficoltà del ritratto sta proprio nel mettere insieme questo due momenti».Per la prima volta Tullio Pericoli parla, ma non con il linguaggio figurativo. Con i suoi «appunti sul volto», invece, nei quali svela la poetica all’origine della sua arte di disegnare ritratti, di studiare le tracce che l’anima lascia sul viso. Di investigare le facce; perché «la faccia è un’autobiografia sintetica con la quale ci presentiamo in ogni occasione, sapendo di esporci a un’indagine che passa attraverso di essa».
Grande la differenza tra ritratto fotografico e ritratto dipinto. Se il primo è il ritratto di qualcosa «che muore nel momento in cui avviene lo scatto», il ritratto disegnato «può invece aspirare a vivere anche del dopo, e a raccontare qualcosa che ancora non c’è».
Wittgenstein diceva che la faccia è l’anima del corpo – ricorda Salvatore Silvano Nigro nella sua introduzione – e per Baudelaire il ritratto è una «biographie dramatisée». Ma l’anima per Pericoli è «un paesaggio che respira», dove a un certo punto anche noi da osservatori diventiamo osservati. E dove, scrive Nigro, Pericoli «recensisce volti, per raccontare scritture», plasmando, nella loro orografia, il dato formale insieme a un distillato della personalità e dello stile del personaggio rappresentato. Così che il ritratto di uno scrittore, di un artista, trascende il dato visivo per trasmetterne un’idea più completa, una metafora, una rappresentazione del suo mondo, magari narrata figurativamente attraverso sottili citazioni.
Al libro è abbinata una sequenza di ritratti di Samuel Beckett, «la faccia più bella del secolo». «La faccia di Beckett mi è apparsa come affiorasse da un muro. Un muro vecchio, muffoso, screpolato, a pezzi. Un muro che con le sue macchie, con le sue nuvole del cielo, suggerisce forme all’immaginazione, combinazioni, pensieri, paesaggi. Quella di Beckett è una faccia-paesaggio, in cui si esprime prepontentemente l’anima. (…) Un muro-paesaggio del dopo. Su quella superficie è accaduto ormai tutto, come nei suoi testi d’altra parte, come se la parola fine fosse stata scritta prima di cominciare. (…) La ragnatela delle rughe di Beckett è una maglia fatta delle sue parole. Sembra che la faccia se la sia scavata scrivendo, che la sua scrittura continui sulla superficie del suo volto, come se le sue parole ne disegnassero i lineamenti. Quindi quella che vediamo è la sua faccia vera? O una faccia che scambiamo per sua, ormai presi nella ragnatela delle sue parole?» (cb)