Last Updated on 30 Aprile 2005 by CB
Wilbur Smith è forse il narratore di avventura più fortunato del pianeta. All’età di 72 anni guarda il mondo accoccolato su una pila di romanzi che hanno scalato le classifiche: 32 volumi ed oltre 120 milioni di copie vendute. Il successo è cresciuto progressivamente, da 25 anni ogni romanzo vende più del precedente.
Smith è nato in Rodhesia, nel territorio dell’attuale Zambia. Il suo tema unico e prediletto è l’Africa. Anzi, per maggiore chiarezza, l’avventura degli Europei in Africa, dagli inizi all’apogeo del colonialismo, fino alla fine del regime dell’apartheid. Si è lanciato anche in incursioni nel passato remoto, tra i fenici o gli egizi, ma i suoi eroi sono sempre bianchi; faraoni egizi, sacerdoti fenici, pirati inglesi, mercanti olandesi, boeri, agenti segreti americani, consiglieri militari russi, perfino camicie nere italiane impegnate nella guerra d’Etiopia, insomma chiunque o quasi, purchè sia bianco e purchè il suo teatro di azione sia la magnifica, romantica e crudele terra d’Africa… Al centro delle sue storie c’è sempre un protagonista che incarna i valori tipici dell’inghilterra vittoriana, sentita come una dimensione etica fuori dal tempo. E’ questo set di valori chiari, precisi e definiti che si staglia con nettezza su sfondi cangianti come il mantello di un leopardo, direbbe Smith, a spiegare, forse, una parte del suo successo.
Difficile per noi capire come mai il Paese in cui Wilbur Smith vende di più è proprio l’Italia. 15 milioni di copie già vendute e un nuovo romanzo in libreria che promette di stracciare i record del passato. Il suo ultimo romanzo, Il trionfo del sole, è ambientato nel XIX secolo in Sudan dove le forze del Madhi, una specie di Bin Laden del tempo, assediano Khartum difesa dal magnetico generale britannico Gordon. Avventura, colore, violenza, amore, eroismo: ci sono tutti gli ingredienti del genere, ma quello in cui Wilbur Smith eccelle è la capacità di moltiplicare gli intrecci e di spingere la narrazione ad un ritmo in costante accelerazione. La sua scrittura è visiva, e l’immaginazione grandiosa. Il libro è pieno di eserciti che si scontrano, di navi che saltano in aria, di città in fiamme, sullo sfondo del deserto e del grande Nilo. In cambio del divertimento gli perdoniamo qualche strafalcione storico, parecchio sciovinismo britannico ed anche una buona dose di maschilismo politicamente scorretto. Del resto se il suo pubblico è composto in gran maggioranza da lettori di sesso femminile qualche motivo ci sarà pure.
Intervista di Luca Gaballo
Perché 15 milioni di copie vendute in Italia?
Lo accetto senza tentare di spiegarlo. Senza andare troppo a fondo nelle ragioni. E’ vero: ho una storia d’amore con l’Italia che va avanti ormai da 25 anni. Sono molto fortunato. Ognuno dei miei libri, dal Destino del leone fino all’ultimo, ha venduto più del precedente: una progressione continua verso l’alto. Avrei grosse difficoltà nel cercare di spiegare perché, posso soltanto ipotizzare che si tratta del passaparola: sempre più persone vengono a contatto con i miei libri e ne parlano ad altri. Ormai si tratta di varie generazioni, al padre segue il figlio e, a volte, anche il nipote.
La spinta a diventare un narratore di avventura viene dal fatto che ha vissuto una vita avventurosa oppure dalla suggestione dei romanzi di avventura di cui è un vorace lettore?
Credo che sia una combinazione delle due. Credo fermamente che prima di diventare uno scrittore devi essere un lettore. Questo è l’apprendistato che si deve fare per capire com’è costruita una storia emozionante. La scansione dei tempi, l’equilibrio tra descrizione, azione, dialogo deve essere tale da portare avanti la storia. Naturalmente è un aiuto immenso essere nato in una terra come l’Africa, la terra del Romance, il continente nero, che ha affascinato tutti dai tempi degli antichi romani fino ad oggi. Sono stato molto, molto privilegiato, perché ho vissuto una vita avventurosa grazie al fatto che mio padre era un uomo avventuroso, un cacciatore e un viaggiatore. Egli mi ha portato con sé in molti dei suoi viaggi. Grazie a lui ho visto il territorio, ho incontrato la gente, ho studiato gli animali e ho imparato l’arte della scrittura attraverso i libri.
Leggendo le sue opere si capisce che lei ha osservato da vicino l’Africa e la sua gente ma lei, anche quando descrive l’Africa contemporanea, fa sempre riferimento ad una ben precisa cornice di valori, molto chiari e molto precisi che poi sono quelli dell’Inghilterra vittoriana. Crede che un set di valori etici molto chiari e definiti sia un ingrediente importante per costruire una narrazione di successo?
Naturalmente aiuta ed è essenziale per i miei romanzi. I miei personaggi rispecchiano molte delle mie convinzioni sulla morale, il patriottismo, l’amore, il dovere. Tutte queste cose emergono dai miei libri. Non sono assolutamente in linea con il clima attuale secondo cui nulla conta più salvo l’egoismo dell’individuo. Viviamo in una società, nessuno di noi è un’isola, noi tutti dipendiamo dalle strutture attorno a noi, della società, della politica, dai modelli sociali di comportamento. Questo emerge dai miei scritti.
Lei ha fatto caso al fatto che ultimamente si moltiplicano i successi editoriali di romanzi che hanno come oggetto l’impero britannico all’apogeo della sua gloria? Patrick o Brian, Bernard Cornwell stanno vivendo una stagione di grande successo…
Per quanto mi riguarda non è mai passato di moda. E’ stato uno dei periodi più produttivi, creativi, avventurosi della storia dei popoli di lingua inglese. Risalgono a quel tempo ogni sorta di cambiamenti e di scoperte… dalla radio, alla fotografia, alla balistica delle armi da fuoco, dal disegno delle navi fino a quello alle armi da guerra, tutte queste trasformazioni avvennero in quel periodo. E’ stato un periodo eccitante perché il mondo allora non era stato ancora del tutto scoperto; per esempio il Nilo, che è il soggetto principale del mio ultimo libro, Il trionfo del sole, non era stato pienamente esplorato; le sorgenti del Nilo vennero scoperte soltanto più tardi nel corso del secolo. E’ stata un’epoca eccitante perché c’era così tanto di nuovo, ogni anno nuove scoperte, nuove conoscenze, nuove idee; è stato il tempo in cui ha preso forma, io credo, la nostra civiltà moderna.
Lei ha appena detto che durante l’età vittoriana il mondo non era stato ancora del tutto scoperto… C’è ancora qualcosa da scoprire nell’Africa di oggi?
Ormai l’Africa è stata cartografata al centimetro, ogni possibile angolo, ogni metro quadrato di savana è stato filmato, percorso, orde di turisti hanno visitato ogni parte del continente dalla vetta del Kilimangiaro alle barriere coralline che si trovano sott’acqua al largo delle coste africane, tutto è stato accuratamente esplorato, ma questo vale per il 99 per cento della superficie della Terra. I soli posti che sono ancora incontaminati sono i poli nord e sud e qualche luogo veramente remoto e pericoloso come le vette delle grandi montagne, come il K2 e l’Everest… sono di più gli uomini morti sulle cime che quelli che sono riusciti a scendere.
Il romanzo storico è un modo per evadere da una realtà che non lascia più spazio all’immaginazione o il tentativo di indagare le radici del presente?
Penso che noi siamo tutti creature della storia, il momento in cui siamo ora è stato definito da coloro che sono venuti prima, civiltà, società, lingue, culture, modi di vivere, tutto si è evoluto dal passato. Se qualcuno mi dice: non sono veramente interessato alla storia, posso rispondergli: «Tu non sei interessato a te stesso perché sei parte della storia».
Da quando il regime dell’apartheid è finito lei non ha più raccontato dell’Africa contemporanea. Il ciclo dei Courtney termina molto prima delle elezioni che hanno portato al potere Nelson Mandela. L’Africa di oggi non le interessa più?
Il corpus della mia opera è stata la celebrazione dell’esperienza europea in Africa, iniziata con i primi esploratori scesi dal nord in minuscole imbarcazioni a vela e continuata con la penetrazione nelle profondità del continente, ma dal momento in cui l’esperienza europea è diventata quasi irrilevante in Africa quella epopea è giunta alla fine. C’è così tanto ancora da scrivere per me a proposito di quello che realmente mi interessa, e cioè la mia gente, la mia lingua, in una terra straniera ed estranea che hanno fatto propria, questo è quel che mi interessa, non quello che è venuto dopo…Lo lascio, chissà, agli scrittori africani neri perché continuino a narrare.
Nel mese di marzo si è ricordato il ventennale della perestorjika di Gorbaciov. In molti suoi romanzi lei descrive l’Africa come il campo di battaglia della Guerra fredda. Che memorie personali ha di quel periodo?
Naturalmente io scrivevo proprio durante quel periodo cui lei fa riferimento, quando ero giovane, visto che vivevo in Rodhesia. Sono stato coinvolto nelle azioni militari… non militari, mi correggo, ma di pace, siamo stati richiamati tutti e io ho militato in una speciale unità di pace, ricordo chiaramente tutto quello cui lei fa riferimento: il Congo, il Mozambico, il Frelimo, la Namibia, le incursioni, l’ingresso dei Cubani in Africa, ricordo tutte queste vicende molto chiaramente, certamente ho sentito le pallottole di mitragliatrice che fischiavano attorno alla mia testa, o l’esplosione delle bombe, molto, molto scomodamente vicine al cespuglio dietro cui stavo sdraiato, ho memorie chiarissime.
Nei suoi romanzi i giornalisti, normalmente, sono personaggi negativi, cinici, amorali e impegnati nel gioco dell’influenza, del denaro e del potere, assolutamente indifferenti alla ricerca della verità. Ne deduco che lei non ha grande stima della stampa.
Penso che i giornalisti siano come qualsiasi altro professionista, ci sono i buoni e i cattivi giornalisti. Si può dire lo stesso degli avvocati, ho conosciuto degli avvocati amabilissimi, ma anche qualche autentico delinquente, dei veri e propri ladri, dannosi per la legge che rappresentano. Lo stesso vale per i medici, ce ne sono di ottimi, che dedicano la vita a curare la gente e gli altri che sono lì solo per i soldi, e per la gloria. Non provo alcuna animosità particolare verso i giornalisti, infatti alcuni dei miei migliori amici sono giornalisti, ma ci sono i buoni e i cattivi, ci sono quelli che vanno sul campo e se non c’è abbastanza sangue, disastro e confusione e cose eccitanti di cui scrivere, creano le situazioni istigando. Questo è stato particolarmente evidente, a volte, in Rodhesia. Andavano in un posto e se non c’erano abbastanza tumulti dei neri e non c’erano lanci di pietre e pneumatici in fiamme, facevano in modo che succedesse, mandavano qualcuno a suggerire che poteva essere una buona idea sceneggiare un tumulto di fronte alle telecamere perché quella era la maniera di apparire in televisione. Questo è avvenuto, io non dico che tutti i giornalisti sono così, ma certo, non sono angeli.
Certo la stampa si nutre di stereotipi. Lei non crede che questa epoca di globalizzazione, invece di avvicinare tra loro le culture, corra il rischio di appiattire la nostra percezione del mondo e trasformarla in una galleria di stereotipi?
Sono interamente d’accordo con lei, questo è il motivo per cui, in fondo al mio cuore, non credo che l’Unione europea sia una cosa particolarmente… Almeno per quel che riguarda le lingue, le culture, le identità, i costumi dei popoli, non credo che sia una cosa positiva tentare di fare entrare tutti gli uomini nella stessa scatola. Per me parte della gioia di essere umano è che uno scozzese è diverso da un Italiano o uno Zulù da un Eschimese, e se provi a farli stare tutti insieme il mondo diventa piccolo e triste… E’ come se gli uomini fossero una fila di bambole, senza individualità. Penso che nel periodo storico di cui ho scritto, l’età vittoriana, esistevano gli eroi, grandi uomini camminavano sulla terra, perché era loro consentito essere diversi. Ma in questi tempi a chiunque si eleva al di sopra della norma di solito fanno di tutto per tagliare le gambe… Un mondo di eguali, certo, ma naturalmente gli uomini non sono uguali e pretendere che lo siano è una falsità.
Il suo ultimo romanzo, Il trionfo del sole, è ambientato nella Khartum assediata dalle orde del madhi, una specie di Bin Laden del 19esimo secolo. Uno degli aspetti che ho trovato affascinanti è lo scontro di personalità, che si svolge a distanza, tra il Madhi e il generale Gordon, capo degli assediati. Uno dei protagonisti Ryder Courtney, ad un certo punto osa affermare che i due sono uguali, perché entrambi ritengono di essere ispirati da Dio, e solleva grande scandali tra gli europei presenti. Perché ha inserito questa scena?
Perché credo che sia molto vero. Molto male, incommensurabile male, è stato commesso nel nome di Dio, da persone che, su fronti opposti, adoravano lo stesso Dio, in tempi di guerra, al tempo dell’inquisizione in Spagna e dopo, fino ad oggi. Nel nome di Dio uomini legano esplosivo attorno alla vita e lo fanno esplodere tra gli innocenti, le donne, i bambini, e li fanno a pezzi, nel nome di Dio. E’ come se avessero pervertito il concetto di religione.
Lei crede allo scontro di civiltà?
Credo che gli uomini siano da duemila anni in uno scontro di civiltà. Se ritorniamo al tempo dei greci ecco la Persia contro la Grecia, se andiamo ai Romani, vediamo i Romani imporre la loro civiltà a quelli che all’epoca erano considerati i barbari, cioè i Britannici, i Tedeschi e i Nord-africani… è un processo che continua. Il problema è che, naturalmente, nella nostra epoca tutto è più veloce, la tecnologia ha reso più rapidi i viaggi, gli eserciti sono più efficienti, l’amministrazione è più efficiente, e la possibilità di propagandare idee e valori attraverso la televisione o la radio sta esacerbando qualcosa che è sempre esistito e sta accelerando il processo.
L’integralismo islamico è oggi un pericolo in Africa?
L’influenza religiosa è particolarmente evidente nel Nord Africa, i problemi di oggi, come il conflitto del Sudan, hanno radici nel passato. Si tratta dell’islam radicale contro gli animisti che sono gli altri membri di quella società e non c’è dubbio che la religione islamica è in ascesa laddove la stella della religione cristiana sta impallidendo, e questo per mancanza di appoggio da parte dei vertici della cristianità. E’ un cambiamento, un avvicendamento nel potere religioso.
Come è cambiato negli ultimi anni il gioco degli interessi in Africa, e la politica delle grandi potenze in questo continente?
Oh… è così complesso, tutte le potenze esterne hanno le loro aree di influenza in Africa, i Cinesi, gli Indiani, gli Arabi, i mullah arabi, è tutto così tremendamente complicato che non ho una opinione precisa al riguardo, ma so che il cambiamento sta agitando il continente e ci sono problemi immensi non solo per le interferenze interne ma anche per i vecchi scontri tribali. Le antiche ostilità esistono ancora perché le frontiere coloniali sono state fatte senza tenere in conto la composizione della popolazione, hanno sezionato le aree tribali, e queste tendono a volersi riunire ed è un tempo di confusione, tutto cambia giorno per giorno. Sarebbe molto difficile fare oggi una dichiarazione che regga per sei mesi.
Nei suoi romanzi lei descrive raccapriccianti carneficine di animali compiute durante la tumultuosa fase della decolonizzazione e delle guerre civili africane. Il massacro di un branco di elefanti su di un campo minato, che apre La notte del leopardo, sottolinea il legame tra guerra, avidità e saccheggio delle risorse.
Per gli africani la selvaggina era un fastidio, il bufalo divorava i pascoli destinati al loro bestiame, l’elefante distruggeva i loro raccolti, il coccodrillo uccideva le donne e i bambini quando scendevano al fiume per attingere acqua, e gli indigeni volevano che gli animali fossero sradicati perché non vedevano niente di bello in qualcosa che distruggeva le loro vite. Oggi invece il turismo, e in particolare i safari legali, hanno fatto in modo che questi animali abbiano un valore molto alto. Per esempio se vado in Botswana, come ho intenzione di fare il mese prossimo, per cacciare un elefante, pagherò 65.000 dollari per il privilegio di cacciare un singolo esemplare, e di questi 65.000 dollari la metà andrà alle comunità che vivono ai margini della concessione di caccia. Gli abitanti del luogo capiscono immediatamente che questi animali sono molto, molto preziosi, è un sentimento economico piuttosto che etico quello che hanno e che cerchiamo di instillare nelle popolazioni locali.
Come mai nessuno dei suoi libri è diventato un film?
Ho venduto tutti i miei libri ad Hollywood, alcuni ripetutamente. Quel che accade è che un produttore si presenta e compra un’opzione su un mio libro e mi paga profumatamente, e poi se ne va; un anno dopo l’opzione scade, lui non ha realizzato il film e allora io sono libero di venderla di nuovo. Questo è il mio rapporto con l’industria cinematografica e mi sta benissimo. Comunque, molti anni fa, quando io avevo scritto i miei primi libri, ho provato un innamoramento per il cinema e l’idea di vendere i miei libri al cinema; poi ho capito che lo scrittore, e questa è esperienza di prima mano, è un personaggio insignificante nella gerarchia di Hollywood: prima viene il produttore, poi il regista, poi le star, poi tutti gli altri membri del set. Proprio in fondo alla scala c’à lo scrittore, e questo mi è stato fatto capire brutalmente. E cosi mi sono detto: «Perché dovrei tentare di diventare sceneggiatore quando quel che veramente voglio è fare lo scrittore di romanzi, padrone di me stesso?» E così ho fatto la mia dichiarazione di indipendenza. Ho scritto un libro, The sunbird, che non potrà mai essere trasposto in un film. E’ troppo grande, ci sono troppi salti nel tempo, troppi cambi di scena; questo era il mio modo di chiudere con l’industria del cinema. Naturalmente subito dopo un produttore si è presentato per comprare i diritti di Sunbird, ma questa è la follia del mondo del cinema. Non mi piace essere coinvolto nel cinema perché non è piacevole vedere il proprio lavoro, qualcosa in cui hai messo amore e intelligenza, imbastardito da un gruppo di pazzi. Io vado al cinema ma da spettatore.
I suoi intrecci mi sembrano talmente rapidi, tale è la ricchezza di personaggi e oggetti descritti in poche righe, che forse è impossibile che il cinema riesca a riprodurre la sua rapidità.
Lo faccio apposta. E’ quello che ho detto prima, ho iniziato a scrivere, dopo Sunbird, libri che non erano assolutamente fatti per il cinema, e in questa maniera ero libero, proprio perché non pensavo affatto al film, libero di coprire vaste distanze nello spazio e nel tempo, il che mi ha dato il piacere di scrivere e ha migliorato enormemente la qualità del mio raccontare ben oltre quei primi libri che avevano una singola storia disegnata per il cinema. Lei ha ragione, per esempio, per fare un film dal Trionfo del sole, hai bisogno di alcuni eserciti, barche e navi… non ne viene un film in nessun modo ma credo che ne sia venuto un romanzo molto interessante e, per me, molto gradevole.
Come fa disciplinare questa immaginazione così profilica? Come lavora?
La mia immaginazione? La tengo in una gabbia, come 10 tigri, le nutro con carne cruda e poi quando il tempo è venuto apro la gabbia, e faccio uscire le tigri, e poi le seguo con il mio block notes.
Quando le tigri escono lo fanno con un certo stile… come definirebbe il suo stile? E qual è, secondo lei, la ricetta per una pagina ben scritta?
Ci sono così tanti stili di scrittura. Prendiamo Ernest Hemingway, andiamo un po’ indietro nel tempo. Eegli ha fatto una virtú della scrittura minimalista, non usa quasi aggettivi, ha scritto non con il pennello ma con lo scalpello e ha tagliato, tagliato via, tutta la carne dalle ossa della storia. Il che era straordinariamente efficace al quel tempo, perché nessuno prima di lui aveva scritto con quello stile, lui era uno scopritore di piste, un innovatore, e questo è il motivo per cui viene ricordato come un gigante della letteratura. Io sono stato molto molto fortunato ad essere nato con una lingua, che è una delle piú ricche al mondo, la lingua inglese ha così tanto… per me è come una torta di cioccolata in bocca. La lingua inglese ha così tanta scelta di vocaboli e di modi di esprimerti, io mi diverto a scrivere in lingua inglese, è fatta per narrare storie. Molti dicono che scrivo in maniera troppo ricca, come una torta di cioccolato, a me va bene, questo è il mio stile. La base di tutto è la lingua, da lì l’immaginazione parte e io vedo le cose mentre avvengono nella mia mente, e poi sono capace di descriverle. In qualche modo torniamo all’idea del cinema, io sono una telecamera visuale, scrivo come una telecamera, non come uno scalpello.
Nel suo ultimo romanzo, Il trionfo del sole, in epigrafe c’è una citazione di Winston Churchill, di lui qualcuno disse: «Schierò la lingua inglese e la lanciò in battaglia». Per lei Curchill è un punto di riferimento politico o letterario?
Era un personaggio così affascinante da ogni punto di vista, era un figlio dell’età vittoriana, era uno dei giganti di cui abbiamo parlato prima, è stato un carattere così contradditorio… perché come scolaro era un disastro, non si adattava alla disciplina scolastica e lo consideravano un ritardato mentale, eppure divenne un tale esponente della lingua inglese… il suo vocabolario era probabilmente 3 o 4 volte il mio. Era certamente molte volte più ricco di quello dell’inglese medio colto del suo tempo, e lui aveva l’arte di trovare la parola esatta per comunicare esattamente quel che lui voleva: come oratore, come polemista in parlamento era un avversario formidabile, poteva ammutolire uno dei suoi oppositori con appena qualche parola affilata, ed era molte strane cose assieme. Era un patriota, un guerriero, uno scrittore, uno storico, un uomo di così vari talenti… uno dei giganti della letteratura.
Su Internet
Wilbur Smith